Tempo di uccidere Ennio Flaiano recensione

Caso e ossessioni in Tempo di Uccidere

Tempo di uccidere, unico romanzo di Ennio Flaiano, scritto in soli quattro mesi, è il libro vincitore della prima edizione del Premio Strega ed è considerato da molti il solo romanzo italiano sul colonialismo.

Fretta

È una sera di dicembre del 1946. Due uomini passeggiano per le vie di Milano. Uno è Ennio Flaiano, l’altro è l’editore Leo Longanesi: convinto da tempo delle straordinarie doti letterarie dell’amico, lo esorta a scrivere un libro per il marzo dell’anno successivo.
Questa volta Flaiano si decide e in poche settimane consegna un manoscritto; per poter partecipare al Premio Strega viene inviato così in fretta alla stampa che non sarà possibile nemmeno apportare le correzioni richieste, perché il libro è già in legatoria.

La frenesia nella genesi editoriale di Tempo di uccidere è uno stato che pervade anche la trama. In “un’atmosfera morbida” e quasi onirica, con le ore scandite da un orologio con “un confuso concetto del tempo” (si ferma nei momenti meno opportuni), il protagonista procede in ogni azione come in preda a una smania e a un’impazienza continue.

Ma anche l’autore, durante la stesura dell’opera, avverte l’urgenza di scrivere velocemente la propria testimonianza, nonostante avesse atteso dieci anni dal ritorno dalla guerra di Etiopia a cui aveva partecipato. In una lettera di ringraziamento a Maria Bellonci per la prefazione all’edizione del 1968 racconta di aver sentito “necessità” di scrivere in fretta il romanzo come “una confessione e una speranza”.

Tempo di uccidere, la trama del romanzo di Ennio Flaiano

Etiopia, 1936. Ultimo atto di un colonialismo italiano “in ritardo”. Un tenente dell’esercito, protagonista senza nome, di aspetto comune e personalità mediocre, viene spinto da una serie di circostanze a vagare per le “scorciatoie” e le strade dell’Africa e attraversare le ossessioni e i deliri della propria mente.

In tasca le lettere “di lei”, unico accenno alla vita in Italia, il protagonista fraintende, uccide, sbaglia e si autoassolve, confondendo un tronco d’albero con un feroce coccodrillo e cercando conferme o smentite di presunte malattie tropicali nelle foto e nelle descrizioni di un libro di medicina, anticipando di più di mezzo secolo ciò che faranno i suoi discendenti su Google.

Alla fine “nessuno vince” perché il dado è “senza punti” e le uniche trombe del giudizio sono quelle del trombettiere dell’esercito che, felice di tornare a casa, ripete il segnale con “stecche e comiche variazioni”.

Ennio Flaiano scrive un romanzo allegorico e onirico, mai apertamente polemico, ma profondamente critico sulla inutilità della guerra e sugli errori e la disumanità del colonialismo, ironico e acuto quando affonda la penna nelle distorsioni psicologiche dell’uomo che sono già quelle dell’uomo moderno.

Il caso in Tempo di uccidere

Di autocarri che ribaltano è piena l’Africa.

Maestro di aforismi, Flaiano pone questa frase all’inizio e alla fine della sua storia, in contesti diversi, a segnalarne l’importanza e la solennità per affidarle il senso, o meglio, il non senso dell’intera vicenda.

È il caso a dominare le vite degli uomini, il caso la sola certezza. Un autocarro che si ribalta dà origine a una serie di errori ed equivoci fortuiti che si perpetrano fino all’epilogo. Oppure una rivoltella che non fa il proprio dovere: fa cilecca invece di uccidere e sbaglia bersaglio provocando un delitto assurdo.

Lontano dal neorealismo italiano dell’epoca, Tempo di uccidere ripercorre i temi di Jean Paul Sartre, André Gide e ha una vicenda quasi parallela a un altro libro in cui un assassinio irragionevole è al centro della storia e cioè “Lo straniero” di Albert Camus. Ma se l’atmosfera di angoscia e dubbio è simile, i due protagonisti sono diversi per carattere, affrontando la loro estraneità e il proprio crimine in modo opposto: Mersault non cerca scuse, il tenente è alla continua ricerca di autoassoluzione. “I dubbi confortano, meglio tenerseli”, in fondo “il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi” di quelli altrui.

La malattia

Un dolore al dente, “l’impaziente nevralgia”, che spinge il tenente a chiedere una licenza alla ricerca di un dentista e poi funge da “’impulso irresistibile” per lasciare il luogo dove si è rovesciato l’autocarro e cercare un passaggio per non sciupare nessuno dei giorni concessi, è la prima malattia che muove il racconto. Tutto nel libro appare “guasto”, appestato, a volte da malattie reali, come la lebbra, da cui sono affette anche delle bellissime donne abissine, o come quella che provoca la “moria di muli della Sussistenza” di cui puzzano le strade dell’Africa, altre volte simboliche, come “quel male” “sottile e invincibile” che ci si procura “quando l’esperienza porta” “a scoprire quello che noi siamo veramente”.

L’Africa

I fatti si sarebbero potuti svolgere “in una stanza” -sostiene l’autore- e l’Abissinia ha una funzione “puramente indicativa”, quasi uno sfondo “di cartapesta” come le piante cresciute lungo il burrone, “ovunque ci fosse posto per un seme che capitasse a finirvi i suoi giorni”.

Eppure Flaiano l’Africa l’aveva conosciuta davvero e riesce a coglierne e delinearne l’essenza anche in pochi dettagli e senza riferimenti paesaggistici descrittivi. In una pagina del taccuino che porta con sé durante la guerra, “Aethiopia”, appunta “Porca miseria!”, l’esclamazione di un soldato italiano, che si guarda intorno, appena sceso da un camion; aggiunge che molti erano partiti con l’idea di un continente esotico, quello dei “films Paramount” con palme, banane, “donne che danzano e pugnali ricurvi” e invece trovano una “terra misera” come la loro, ma “più ingrata”.
L’Africa è “lo sgabuzzino delle porcherie”, dove “ci si va a sgranchirsi la coscienza” e dorme “il sonno caldo e greve della decadenza” e “dei grandi imperi mancati”; triste, perché “se in una terra nasce la iena, ci deve essere qualcosa di guasto”.

Gli animali in Tempo di uccidere

Non la terra delle nobili tigri, dunque, ma delle iene. Anzi, lo sterco delle iene, che fa “orrore” e fa ridere gli indigeni per lo “schifo”. Il “baccano” degli sciacalli, gli scorpioni, i termitai, i vermi che divorano i muli morti per le strade, i corvi presi a sassate, il camaleonte “pigro” e “spaventato di vivere” e, infine, il coccodrillo, “harghez”, di cui si ha il terrore, ma mai la vera certezza della sua presenza, l’incarnazione delle proprie ossessioni.


Scheda del libro

Titolo: Tempo di uccidere

Autore: Ennio Flaiano

Editore: Adelphi Edizioni, 2020

Prima edizione italiana: Longanesi, 1947

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