di Stefano Iatosti
C’è un paese latino-americano, un piccolo paese in cui è vissuto un presidente, che per qualcuno è stato un dittatore: a me interessa raccontare dell’uomo e più ancora di chi lo ha eletto, sostenuto e perfino rimpianto, una volta che non poteva più parlarne bene o male.
Nato nella provincia settentrionale, proveniente da una famiglia della piccola borghesia, Enrique Manuel Luz ha scalato a poco a poco i vertici del potere, dal seggio al Parlamento fino alla Presidenza. E mentre l’uomo della strada riposava sotto le coltri, in preda ai suoi mediocri sogni di rivalsa, Luz preparava il destino del paese. Il popolo, d’altronde, era ben felice di lasciarglielo fare, schiavo com’è dell’immediato, del contingente, esecutore inconsapevole di un disegno tracciato altrove, nelle notti insonni di un grande sognatore.
La sua agiografia prende le mosse dall’infanzia. Come tutti i predestinati, si è rivelato tale fin da bambino. I successi scolastici, il talento calcistico, la precoce attenzione per l’altro sesso hanno creato le basi per la favola e la favola non poteva che avere un lieto fine. S’intende, anche Enrique Manuel Luz ha dovuto far fronte ai suoi critici, agli intellettuali non allineati. Ho trascorso molte serate con Pablo e Alexandra Lenoir, due frondisti in voga: lui continuava a sfoggiare una barba rossiccia da rivoluzionario e occhialetti dorati, lei era sempre elegantissima, ma a detta sua, vestiva solo straccetti trafugati a qualche bancarella. Seduti al Kind of blue, sbirciando le navi in partenza, fra una granita e l’altra, ci scambiavamo i nostri pareri sul Dittatore del sorriso, come lo ha definito un comico, forse per invidia. Secondo Pablo, Luz governa un paese fuori del tempo, nel quale ogni suddito è ben felice di narrare ai suoi figli la stessa storia, tanto che ormai, a forza di ripeterla, nessuno sembra più in grado di distinguerla dalla realtà. Ma se la favola è fuori del tempo, obietto, la vita reale non si ferma né torna indietro. Sfumature, insiste lui, quello che chiede la gente è solo un infinito presente in cui rimpiangere un passato mai esistito.
Scritte anonime, tracciate di notte sui muri intonacati, dileggiano Enrique Manuel Luz annunciando la rivoluzione prossima ventura, un mondo nuovo e libero per tutti. Quando la libertà è attesa come un mito, la palingenesi che farà di ogni uomo il solo e unico responsabile di se stesso, il dittatore dorme sonni tranquilli. Mi sembra di vederlo sogghignare anche nel sonno. La gran parte del paese è convinta che le cose migliorino un po’ ogni giorno e quello che conta è la promessa della felicità, non la felicità stessa. Si vive di sogni e non ci si sveglia mai del tutto. Chi si mostra consapevole non è meno immerso nella favola, è solo che sa utilizzarla ai propri fini.
Gli economisti inneggiano all’ottimismo: il buon andamento del mercato immobiliare instilla fiducia e la fiducia fa girare il denaro. Le strade appaiono sicure come mai e gli incidenti sul lavoro vengono imputati soltanto a tragiche fatalità. Si continua a morire, com’è ovvio, ma per inevitabile legge di natura. In un paese sospeso nel tempo, le notizie locali, una volta relegate alle pagine interne, guadagnano spazio in apertura. Si dà conto meticolosamente di fiere e sagre paesane, ricorrenze, calendari, astrologia e divinazione; per contro, della politica estera, non si fa quasi cenno. Sulla stampa, la festa patronale di un’oscura cittadina trova maggior risalto di una crisi internazionale. Si può fare a meno degli altri, sembra insinuare il Presidente dettando silenziosamente la linea ai quotidiani: ciò che accade fuori dei confini non può riguardare un paese felice e orgoglioso della sua felicità.
Una sera, Pablo e Alexandra mi trascinano al Lenny, un locale angusto, fumoso e in eterna penombra, dove servono drink dai nomi improbabili. Siamo qui per ammirare Pedro Weiss, l’imitatore: la sua abilità è nel restare se stesso pur interpretando il personaggio in modo assolutamente credibile. Il trucco è minimo, la gestualità ridotta, stilizzata. Senza assomigliare minimamente a Enrique Manuel Luz, Weiss appare più somigliante del modello. L’imitazione è una forma di decantazione del personaggio, di raffinamento. lo completa, lo perfeziona e in questo modo ne mostra i meccanismi, le strategie, i punti deboli. La gente ride battendo il palmo sul tavolo, con le lacrime agli occhi. Un rito liberatorio che si concedono anche i collaboratori più intimi del presidente. Enrique Manuel Luz, d’altronde, non è tipo da prendersela a male, anzi, ne sorride: la satira, se intelligente, finisce spesso per nobilitare il suo oggetto.
Lo spirito del barocco, stile di riferimento per ogni regime che si rispetti, sopravvive nel teatro permanente, nell’idea che le facciate dei palazzi, le vetrine e le insegne, le statue equestri e le fontane siano tutti elementi di scena, una scena addormentata, nebulosa ma nitida, proprio come in sogno. Ma ecco che l’immagine del Presidente, per l’eccessiva esposizione alla luce, si fa sfocata, non so se sto raccontando di lui o di una delle tante figure possibili nella metafora privata dell’infanzia, padre, maestro o guida spirituale. Il suo sorriso, il ghigno agli angoli delle labbra è una contrazione involontaria, un tic che da morto gli varrà l’epiteto, non meno del Gobbo o della Pazza dei bei tempi andati.
Diego, il direttore del Kind of blue, non si capacita; il discorso serale del Presidente non è ancora andato in onda: il ritardo si protrae senza spiegazioni e la stazione televisiva, a corto d’idee, si affida agli spot pubblicitari. Passano poi le immagini di repertorio: Luz che inaugura un ponte, Luz che saluta i calciatori della nazionale in partenza per l’Honduras, Luz con il casco da minatore che visita una galleria. Svanite quelle, tornano le pubblicità. Un vocio informe sale ora dal belvedere disperdendosi in decine di commenti, scrollate di spalle, ansie e sguardi interrogativi. Nessuno sa darsi una ragione e c’è chi già pensa al peggio. Comincia a diffondersi l’ansia sotto forma di un fervore eccessivo, sopra le righe: troppe risate, si alza la voce per un niente e le donne tengono sempre un occhio allo specchietto per ritoccarsi il trucco. Con il progredire della notte, sale dal porto un odore misto di cherosene e di marcio, di pesce e vernice, che la brezza di terra non riesce a dissipare. In quel ristagno salmastro mi stordisce l’ottusa familiarità del luogo, la dittatura del riconoscibile cui non si rinuncia: Luz è parte di tutto questo, della notte e del porto, di quella pantomima quotidiana e della sua celebrazione divertita o stizzosa. Forse si è semplicemente addormentato e dormirà per un anno di seguito, recuperando le troppe notti insonni e tornando, finalmente, a sognare.
Non puoi mancare, insiste Blanca e così la seguo fino al Teatro Vanini per l’ultima fatica del nostro comune amico, il regista e attore Jorge Ortica, alle prese con una bizzarra versione della Tempesta, ambientata ai giorni nostri. Non riesco a comprendere perché ci si ostini nel modificare l’ambientazione o l’epoca dei fatti. Si crede di rendere più attuale una vicenda fuori del tempo rappresentandola ai nostri giorni? Per i suoi abiti e i suoi modi, Prospero, vale a dire Jorge, sembra una caricatura del Presidente con la barba posticcia e le pose da vecchio pazzo. Più tardi, a cose fatte, andiamo a festeggiare con la compagnia e, neanche a farlo apposta, il discorso cade sulle misteriose condizioni di salute di Luz. Morto un Prospero se ne fa un altro, commenta crudo Calibano, riconoscibile anche senza trucco.
Fra la gente serpeggia l’inquietudine e ipotesi svariate si accavallano. Il solito bene informato insinua che il Presidente abbia scelto di curare i suoi scompensi circolatori in una clinica svizzera, a due passi dalla banca di fiducia. Un altro pretende che sia stata allestita una sala d’emergenza nel caveau. Il pettegolezzo diagnostico, sempre fiorente in queste circostanze, cerca indizi per l’anamnesi nelle registrazioni dei discorsi televisivi: un’improvvisa afonia, un’esitazione prima di attaccare la frase, un lieve affanno a termine dell’esibizione sono considerate le avvisaglie di un infarto incipiente. E come sempre accade in questi casi, si pensa alla sua eredità politica. Chi potrà mai sostituire il Presidente? Paco Vargas, detto il maggiordomo, il più fidato dei consiglieri, è sempre vissuto nella sua ombra e faticherebbe a uscirne, anche se sapesse come fare. Di giovani rampanti nessuna traccia: tutti stroncati sul nascere dall’ipertrofismo di Enrique Manuel Luz. I vecchi si sono già posti fuori gioco. Il limbo si fa via via più appiccicoso mentre si avvicina, lenta e inesorabile, la stagione delle piogge. L’eclissi di Luz viene considerata un segno del destino: avremo bisogno di nuovi prestiti internazionali e c’è già chi pensa di chiudere il conto in banca e partire per nuovi lidi. In ogni bar si dibatte del cuore del Presidente più che della Coppa America. Nessuno, in fondo, ha perduto la speranza che Luz torni, da qualunque inferno o paradiso in cui si sia cacciato.
Segaligno, dinoccolato e pallido, la voce cavernosa, i modi compassati, Paco Vargas ha un aspetto tetro e dichiaratamente lugubre. La sua figura in bianco e nero, il lieve sentore di polvere, non desterebbero sospetto in un film con Bela Lugosi o Vincent Price. Quando, alle otto, puntualissimo, appare sullo schermo per la dichiarazione, la gente comprende prima ancora che il maggiordomo apra bocca. Piove, neanche a farlo apposta, e al Kind of blue siamo tutti accalcati in sala davanti alla televisione: tutti ce lo aspettiamo, ma nessuno ci vuole credere. Il modo in cui l’agonia politica di Enrique Manuel Luz è stata occultata fa intuire in quali mani siamo capitati. Non che siano peggiori delle nostre, s’intende: avremmo fatto altrettanto, conoscendoci. Il sorriso del Presidente ci ha abbandonato per sempre, salvo tornare in mente ogni volta che ci sia da confrontarlo con quello del suo impassibile erede. Resterà in noi l’attesa del crepuscolo, la tirannia della consuetudine, la vista confusa dell’orizzonte sul mare d’inchiostro, le notti, gli sguardi e le parole, le donne e gli amici, l’animazione del porto e i progetti mancati: faremo l’abitudine a Paco Vargas il lugubre e di Enrique Manuel Luz serberemo il ricordo, un ricordo sempre meno attendibile, i tratti del volto consegnati all’indulgenza di una foto d’archivio, di una ripresa televisiva ben calibrata, finché della sua faccia non resterà che il sorriso e anche quello a poco a poco svanirà, come tutto svanisce o si trasforma nell’idea di ciò che è stato, per tutti uguale, per ognuno diverso e forse nulla.
Il dittatore del sorriso. Racconto di Stefano Iatosti – Il Cappuccino delle Cinque
di Stefano Iatosti
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Autore: Stefano Iatosti