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La bici verde. Racconto di Silvia Spera

di Silvia Spera

«Ma sei sicura di voler spendere questi soldi?» chiede suo marito dalla cucina.
«Sì infatti, mamma» interviene il figlio mentre ripete fisica «hai addirittura paura di fare il giro dell’isolato col mio motorino 50».
«E poi sei capace di perderti tra le strade di Roma, anche quelle sotto casa!»
È vero, pensa Federica, cercando di ricacciare indietro il solito lacrimone. Ma talvolta, come ora, diventa troppo sodo e rotondo per riuscire a trattenerlo tra le ciglia e la gravità lo fa scendere inesorabilmente.
«Ti ricordi quella volta che da bambina, ci hai raccontato, hai perso le chiavi della catena della bici di zia?»

«No? Immaginavo, dimentichi tutto».
«Ma poi mamma la tua spalla è sempre dolorante».
È vero, pensa Federica, ammutolita, vinta e stanca.
Meno male che l’allenamento l’ha resa una potente streghetta, il prodigio della bolla protettiva che viene dal passato si ripete. Anche ora si ritrova per magia tra mamma e papà giovani: Che roccia che è ‘sta figlia nostra. Certo Federica è svelta, come la polvere. Fede, accompagnaci tu a Firenze il mese prossimo, che guidi così bene, non preoccuparti per l’orientamento, ci arrangiamo. Ti fa ancora male la spalla? Dai che con la fisioterapia passa, tesoro.
I suoi genitori l’hanno sempre coccolata e considerata quella forte della famiglia, una ragazzetta proprio sveglia, indipendente.

«Esco a fare due passi e compro anche qualcosa per cena».
Entra nel negozio di biciclette vicino casa, il più caro della zona, una boutique praticamente. Chiede una bici comoda, i suoi piedi, una volta in sella, devono toccare bene a terra, leggera ma stabile, di qualità media, da città.
Ascolta impaziente le caratteristiche tecniche incomprensibili dei bolidi proposti e sceglie, invece, quella verde opaco, elegante, discreta, con il cestino già montato.
Il negoziante le propone anche una serratura pieghevole e una luce: Signora, vedrà che con questa bicicletta si vola, un giorno pedalando non si accorgerà che il cielo è diventato buio. Lei accetta sorridente, paga ridendo senza motivo ed esce a cavallo della sua bici nuova urlando uno scomposto yeah, indifferente agli sguardi altrui.

Questa bici la fa sentire semplicemente bene, padrona delle sue scelte, le restituisce il senso di autonomia del passato e di colpo torna ad assaporare la libertà di una volta.
Respira a pieni polmoni l’aria del parco, l’odore dell’erba appena tagliata, lo smog della Salaria e la storia dei vicoli del centro.
L’orologio della farmacia lampeggiante le ricorda che è tardi, frettolosamente compra formaggi, miele e vino bianco per festeggiare.
Pedala, pedala all’impazzata, col vento che le fa volare via i pensieri. Si ferma. Mette la bici in cantina e sale a casa trafelata, dove l’aspettano, certi che non ci sarà nulla da mangiare, con la tavola apparecchiata e la TV accesa.
Federica ignora il motivo ma quella sera non parla del suo acquisto, l’esaltazione che prova è tutta sua, tutta intima, privata.
Ne parlerà il giorno seguente a pranzo, in tono dimesso, un po’ intimorita dalla possibile reazione ironica, ma avvia ancora una volta il superpotere della nostalgia che isola e conforta.
Nei giorni che seguono, appena finisce le faccende di casa, si inventa mille scuse per uscire.
«Oggi faccio la spesa in quell’alimentari un po’ lontano che adoro» si dice mentre si infila i jeans.
«E poi magari passo a trovare Roberta, è una vita che non ci facciamo due chiacchiere» mormora tra sé e sé.

Una mattina sale sulla scala e prende dal cassettone la sua vecchia macchina fotografica e il cavalletto. Li spolvera, prende la bici in cantina, monta in sella e nelle tre ore prima di pranzo, si ferma sul lungotevere all’altezza dell’isola Tiberina, poi a piazza delle Tartarughe e infine a San Luigi dei Francesi. Immortala angoli, persone affaccendate, insegne di negozi, palazzi, come quando era studentessa alla ricerca dello scatto perfetto.
In quel primo fine settimana da donna con la bici può finalmente arrivare dove vuole. Fa giretti nelle tanto amate piazze del centro, percorre le stradine più nascoste, entra in quella mostra al chiostro di cui ha letto sul giornale e poi via, a casa, con il corpo che sussulta per via di sampietrini, buche e radici che affiorano.
Un venerdì, lungo la ciclabile sulla strada del ritorno, non si ferma sotto casa, incombono le luci della sera, accende il faro a dinamo anteriore, allungando il braccio al volo.
Non si ferma, pedala con le narici che si dilatano, il respiro che accelera, i muscoli protesi con grinta. Vola.
Il paesaggio attorno a lei cambia lentamente, si susseguono scenografie diverse di un film.
Non si è fermata.
Arriva in un posto isolato, lungo il fiume Aniene.
Il cellulare squilla ininterrottamente. Frena, lo prende dalla tasca e lo scaraventa in acqua.
Di nuovo pedala, mette una distanza sempre maggiore tra il suo corpo, di cui percepisce finalmente l’interezza, e la Lei scomposta in mille pezzi da buttare.
Nella sua mente la scena di suo marito e suo figlio impazienti in salone, ormai sicuri che abbia avuto un incidente. L’immagine sparisce in pochi istanti, prima che possa iniziare l’inversione di marcia per tornare a casa.

Una signora attraversa la strada, ha bei vestiti e capelli bianchi ben acconciati, nelle mani due buste che sembrano macigni. Federica scende dalla bici «Posso aiutarla?»
«No ragazza mia, grazie. Seguimi, forse io posso aiutarti. Mi sembri smarrita».
Sorpresa e stizzita, la segue senza domande, trasportando la bici a mano. Ora un lieve senso di benessere la pervade.
Camminano affiancate per una decina di minuti, in silenzio, e arrivano in una valle dove imperioso troneggia un enorme casale un po’ fatiscente, come caduto dal cielo. Davanti alla veranda, un mucchio variopinto di biciclette parcheggiate, di ogni tipo. L’anziana signora apre la pesante porta, il calore le invade entrambe e Federica incrocia gli sguardi di tante altre donne.
Un gruppetto davanti ai fornelli sorride controllando le cotture di cibi odorosi. Qualcuna si asciuga i capelli gocciolanti, altre fumano e bevono vino rosso sul divano al centro dell’enorme salone.
«Entra, ecco le mie ragazze, salvate dalle reti.
Al mattino presto prendono le biciclette che hai visto fuori, per andare al lavoro, per cercarlo, o per cercare se stesse e rientrano dopo il tramonto.
Questo è il mio casale, vivono qui con me, siamo una comunità unita, ci sorreggiamo per non morire. Loro mi danno forza a non sentirmi inutile. Sei la benvenuta».

Federica entra in quel grumo di dolore e di allegria insieme, si sente intera, una guerriera.
Chiede un telefono, avvisa a casa che sta bene, tra i rimproveri, le domande e il sollievo di sentirla: non vi preoccupate amori miei, passo la notte fuori, ho il cellulare scarico, ci vediamo domani.
La sera cenano all’aperto, le tre ragazze accanto a lei, braccianti nei campi limitrofi, le spiegano nei dettagli come hanno preparato quel cibo della loro terra. Tutte parlano animatamente cercando di dare consigli a Maura, indecisa se interrompere la sua perenne fuga dal marito o non tornare mai più da lui.
Prima di dormire Federica aiuta Alice e Miriam con la crema lenitiva, hanno i visi scottati dal sole per il continuo passeggio sul ciglio della strada al di là del fiume.
All’alba del mattino seguente il grande tavolo in noce in cucina è già apparecchiato per la colazione, la marmellata è stata preparata da Giulia, insegnante di inglese e cuoca per passione. Si assegnano qualche commissione da fare nel tempo a disposizione a fine giornata e, per chi vuole, ci si vede di nuovo a cena. Caterina promette che si ricorderà il DVD di Kill Bill per il dopocena.

La bici verde opaco di Federica spicca fuori tra le altre.
Federica trascorrerà tutta la sua restante vita a dividersi tra casa e casale, a prendersi cura delle sue due famiglie. Quella che la fa sentire a pezzi e quella dove si sente intera, di entrambe non può fare a meno, di entrambe ama da morire ogni momento e ogni membro.
Dopo anni la sua elegante bici verde opaco non si distingue più dalle altre, è vecchia e malridotta, vissuta, sempreverde.


L’autrice

Silvia si commuove davanti alle formule matematiche che sono l’anima del mondo. Si immerge in acque profonde e si sente parte del mare e delle sue onde. Le piace alzare il volume dei silenzi delle notti d’estate, le t-shirt bianche per scriverci qualcosa sopra, il sapore del FiordiFragola. E la pioggia tranquilla che rinfresca la terra, quando il vento si leva.
Silvia si emoziona sempre e troppo per le cose della vita, odia chi rimanda e chi non partecipa.
Non lascerebbe Roma per nulla al mondo. Ha un sogno: avere un giorno la vespa di Nanni Moretti.
Silvia ha scritto il libro ‘(Non) sono racconti porno’ con il collettivo di amiche SH4.


La bici verde. Racconto di Silvia Spera – Il cappuccino delle cinque

di Silvia Spera

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Autore: Silvia Spera

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