Nannetti

Nannetti. La polvere delle parole. Il racconto del più noto recluso del manicomio di Volterra

Nannetti. La polvere delle parole è il racconto del più famoso recluso del manicomio di Volterra e del suo libro-muro. Edito da Exòrma, è stato pubblicato nel 2022. Sin dalle prime pagine, il libro ci fa entrare nel ritmo di un viaggio – altalenante tra presente e passato – in compagnia delle voci di Nannetti, dell’autore e dell’infermiere. Corredato dalle fotografie di Francesco Pernigo, si articola in quattro parti: 1) I pellegrini (Diario del ritorno-Sparizioni); 2) Casa della misericordia (Diario del ritorno-Resti); 3) Elicottero con i piedi (Diario del ritorno-Voci); 4) Invocazione a San Girolamo.

Dentro le mura

Paolo Miorandi ci accompagna nel doloroso mondo della reclusione dei “matti”. «Ho cominciato a immaginare Nannetti nel 2006 dopo aver visitato in più di un’occasione i padiglioni dismessi […] e aver trascorso molte ore nel cortile del Ferri, davanti al grande libro […] Nell’autunno del 2021 sono tornato per alcuni giorni assieme a Francesco Pernigo, fotografo di cui avevo avuto modo di apprezzare […] la sua non comune capacità di vedere i silenzi» (pag. 39).
La scrittura poetica dolcemente si insinua nell’amara “banalità del male” della segregazione manicomiale, e noi, quasi fossimo spettatori di allora, ammiriamo il lavoro artistico di Nannetti, «l’uomo invisibile armato di fibbia catodica, […] della mano della strega, la mano del destino» (pag. 18).
Penetrando nelle parole di polvere, varchiamo quella linea di confine tra “il dentro e il fuori” e osserviamo il muoversi dei “matti” dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra. Entriamo nel cortile, dove ognuno di loro passa il tempo come vuole: c’è chi gioca a carte e chi dorme, chi fuma i mozziconi di sigarette rubati di nascosto e chi litiga. Fernando Oreste Nannetti trascorre il suo tempo scrivendo ogni giorno sul muro dell’edificio. Per nove anni, e precisamente dal 1959 al 1961 e dal 1968 al 1973, è sempre lì, difronte alle pareti intonacate, a incidere e a portarsi dentro l’anima. Scriverà tanti lunghi metri per quindici anni su quel muro che oggi è diventato un esempio di Art Brut.
Quando Paolo Miorandi, visita l’istituto troverà un edificio in rovina: il tempo ha sfarinato i muri e la polvere vola nell’aria, mentre per terra cadono brandelli di parole, numeri e disegni incisi.

Il protagonista: NOF4

Fernando Oreste Nannetti (1927 –1994) arriva al Ferri nel 1959; dopo due anni verrà spostato tra i “pericolosi” dello Charcot, per ritornare nuovamente al Ferri verso la fine degli anni ’60.
Chi era NOF4? Nato da padre ignoto e da Concetta Nannetti, «era una di quelle cose per cui non c’è posto al mondo» (pag. 29). Lui stesso si attribuirà il secondo nome, Oreste. Noi lo conosciamo con l’acronimo NOF4, Nannetti Oreste Fernando, dove il 4 vorrebbe forse indicare il suo numero di matricola: così si era ribattezzato. Dal carattere taciturno e riservato, ha trascorso gran parte della sua vita vagando tra istituti, ospedali e manicomi; è un uomo solo e «nessuno ha mai chiesto di lui, come se non esistesse, nemmeno una lettera dal tribunale» (pag.20). Con la morte sociale si entra nella realtà cruda della detenzione, nello spazio della sofferenza, nella casa della misericordia mentale segnata da vaneggiamenti e da urla strazianti: un deserto per l’anima.
Il manicomio si mostra per quello che è: un carcere. «Anche se ci chiamavano infermieri, a quei tempi noi ci sentivamo più che altro guardiani, perché questa in fin dei conti rimaneva pur sempre una prigione, sbarre, celle di contenzione, filo spinato» (pag.13), dirà Aldo Trafeli. Nel corso del suo internamento, NOF4, l’uomo invisibile armato di fibbia catodica, scrisse svariate cartoline (neanche una volta inviate) a Bianca, Milena, Maria, ex zio Sabatino, suoi parenti inventati, mentre «a lui nessuno ha mai scritto una riga, neanche per sbaglio» (pag.57). Rimarrà chiuso fra i recinti dell’ospedale fino al 24 novembre 1994 (giorno della sua morte) a Volterra, e qui, nel cimitero comunale, sarà tumulato. Sul marmo del loculo non c’è nessuna scritta, «è una distesa vuota, un muro non ancora scalfito, una pagina tornata bianca» (pag.90).

L’ospedale

L’ ospedale psichiatrico di Volterra nacque nel 1881 come Ospizio di Mendicità, si trasformò in Asilo dei Dementi nel 1897 e in Frenocomio di San Girolamo nel 1902; dal 1934 divenne Ospedale neuropsichiatrico. La struttura è costruita in cima a una collina, è circondata da un muro di cinta con inferriate e filo spinato ed è sorvegliata da guardiani. «Dunque vagabondi, alcolisti, detenuti politici, disertori, fratelli poco avveduti espulsi dalle famiglie per questioni di eredità, donne dai costumi fastidiosamente liberi, criminali ai quali un abile avvocato aveva evitato la galera, un intero catalogo di miserie umane che, se lasciate vagare indisturbate, potevano entrare nelle case a intorbidire i sogni dei cittadini o procurare loro un genere di prurito difficile da grattare via, l’orrore per l’incomprensibile e l’inquietudine che sempre desta la fragilità dell’umano, soprattutto di quella parte dell’umano che si dice essere la più nobile e che ci distingue dagli esseri cosiddetti inferiori» (pag. 78).
Il Ferri dove “abitava” Nannetti è il padiglione nato per accogliere gli autori (con patologie psichiche) di atti criminosi. Alla pari di qualsiasi altro luogo di detenzione, i reclusi, dopo essere morti per la società e la famiglia, sono messi al bando dalla collettività: sono dimenticati.
Vivono in un clima intollerabile di non intimità e litigi, grida e deliri; vivono per quell’unico e vitale momento di uscita in cortile, all’aria; vivono derubati della pelle che vestivano all’ingresso; vivono morendo ogni giorno alla vita. «Lasciatelo scrivere, finché scrive non dà noia, ripetono i medici agli infermieri addetti alla sorveglianza degli internati. Nannetti continua a scrivere aggrappato all’inferriata di una finestra, ma nessuno sembra più vederlo» (pag.122). Il “matto” si rifugia in un mondo altro: sceglie il monologo interiore e il silenzio.

Il Libro-muro

Non appena varca la soglia dell’ospedale di Volterra, NOF4 si chiude al vociare del mondo e si apre al silenzio. I muri che lo incarcerano diventeranno il suo strumento di espressione e il suo respiro di libertà. Inizia, allora, il percorso segnando sulla parete un grande rettangolo, è la pagina che accoglierà la sua scrittura. «Fatto il contorno della pagina, iniziava a riempirla; non scriveva soltanto da sinistra a destra, ma anche dall’alto al basso, talvolta alla fine della riga e proseguiva verso l’alto o verso il basso, dove c’era posto […] l’importante per il Nannetti era non lasciare vuoto nemmeno un centimetro di muro» (pag.18).
La sua diversità genera la creazione del libro-graffito, lungo centottanta metri e inciso con le fibbie del panciotto della divisa. Il significato della maggior parte del lavoro ci è ancora oggi sconosciuto: parla di astronavi e aerei, di uomini invisibili e di personaggi immaginari, descritti come spinacei, alti, con la bocca stretta e naso ad Y, di sistemi telepatici e di genealogie dove scorrono papi e regine. NOF4 si inventa una famiglia.
Nello spazio al di qua delle pareti di cinta, riflesso nella silenziosità dell’anima, canta il suo monologo difronte e dentro il muro. Un monologo di pietra. La mano è «un’antenna […] e le parole mi entrano nella mano, le sento salirmi su per il braccio, riconosco il formicolio e la sensazione di calore, è come un solletico, ma ci sono abituato, le mie dita sono tubi di antenna, i nervi del braccio sono fili elettrici» (pag.22). Realizza così, giorno dopo giorno, un manufatto artistico stupefacente, facendo del muro il supporto espressivo alla sua esistenza. Nato come limite, confine e carcere, eretto per separare e imprigionare, il muro si fa muro della libertà. Successivamente Nannetti creò un altro graffito, lungo centosei metri e alto circa ventidue centimetri, sul passamano in cemento di una scala e produrrà anche «milleseicento disegni a biro nera eseguiti nella parte finale della sua vita» (pag.73).
Nella pietra segna la propria identità di uomo abbandonato dal padre (e accolto all’età di sette anni in una struttura di beneficenza) con una grafia eccentrica che ricorda la scrittura etrusca, espressione di un mondo poetico impenetrabile. «Il muro del Ferri è per Nannetti ciò che sopravvive di un altro tempo e di un’altra vita, e non importa che sia una vita non vissuta, talvolta vissuta soltanto per sentito dire, raccolta da stralci di riviste illustrate, o costruita su frammenti immemoriali di case perdute, di gesti antichi conservati nelle articolazioni delle dita, dell’odore infantile di una carezza, del corpo di una donna osservato da lontano così come si osserva una barca che veleggia al largo. Il muro di Nannetti è il sintomo: ciò che ritorna a scompaginare il tempo attraverso la notte immobile del manicomio, dove ogni cosa si ripete e continua a ripetersi» (pagg.112-113). Paolo Miorandi ci presenta la gracilità di un uomo che non disturbava nessuno, di un ”matto” che aveva paura del buio e del silenzio, di un recluso che non sapeva riconoscere sé stesso in una foto.

L’infermiere traduttore

Aldo Trafeli è l’infermiere e custode delle parole di Nannetti, si è «fatto mettere sul computer le foto del muro, quelle che il Manoni ha scattato quando le scritte erano quasi intatte» (pag.15) e, guardando attentamente quelle foto, trascrive i segni incisi, lettera dopo lettera, parola per parola. Spesse volte Aldo si fermava ad osservare Nannetti, l’idiota, il senza voce, e scopriva che quell’uomo oltre a disegnare gli strani segni sul muro, sapeva raccontare la vita che su quel muro si svelava.
L’infermiere traduttore «vede e si domanda se quello che tutti considerano l’insensato intrattenimento di un pazzo voglia dire qualcosa. Compie allora l’azione più semplice, ma per certi versi sconvolgente nell’economia delle relazioni manicomiali dove solo chi sta dalla parte dell’istituzione ha il privilegio di attribuire significato alle cose, si avvicina a Nannetti, gli parla e lo sta ad ascoltare […] compie un gesto poetico, che come sempre è un gesto di accoglienza e ospitalità verso ciò che non si comprende, che non si comprende ancora, che non si comprende del tutto, che forse non si comprenderà mai» (pag. 123). Ecco allora che spunta silenziosamente dalle pagine del libro-muro, l’Ingegnere Astronautico Minerario, colonnello astrale, costruttore nucleare della N.O.F., elicottero con i piedi, scassinatore nucleare, sottomarino nell’acqua del cielo: l’uomo che da solo ha trovato la cura per la sua malattia.

La follia

Ma la follia è una malattia? Franco Basaglia ci dice che è una condizione umana. Lo psichiatra, fondatore del concetto moderno di salute mentale e ispiratore della rivoluzionaria legge 180 del 1978, avviò il percorso che portò alla chiusura definitiva dei manicomi ed ha restituito dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da riparare, ma una persona da accettare, comprendere e aiutare. La follia, dirà, è presente nell’uomo come lo è la ragione. Una società civile dovrebbe accogliere tanto la ragione quanto la follia; invece, si è dato mandato alla scienza psichiatrica di occuparsene.

La polvere

La polvere rappresenta tante cose: è ciò che cade dal muro sfarinato; è il ricordo che si adagia nel regno della dimenticanza; è la società che oblia i reclusi; è lo scorrere inesorabile del tempo nella clessidra; è la polvere che si scrollano, a fine turno, dal camice i guardiani dei diversi.
Paolo Miorandi lavora come psicoterapeuta e si dedica alla scrittura; ha già scritto molti libri. Visitando spesso i padiglioni abbandonati dell’Ospedale Psichiatrico, ha raccolto le notizie che gli hanno permesso di ricostruire con un linguaggio poetico, ma fortemente realistico, la vicenda di NFO4. Ritorna a Volterra con Francesco Pernigo, fotografo, per certificare ciò che resta del muro di parole di Nannetti e del degrado compiuto dal tempo. «I manicomi, non va dimenticato, erano, e sono, laddove ancora esistono, soprattutto muri, reti metalliche, cancelli e porte chiuse da chiavi raccolte in grandi mazzi, ora sostituite da più pratiche schede magnetiche» (pag.75).
Nannetti. La polvere delle parole è un libro che è emozionante leggere, perché ci fa riflettere su quegli individui trasparenti, rinchiusi nei manicomi per la paura e l’incapacità sociale di gestire la diversità, intesa come pericolo e non come risorsa.

 


Paolo Miorandi lavora come psicoterapeuta. Ha pubblicato: “Verso il Bianco. Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser” (Exòrma 2019); “In basso a sinistra. Un viaggio in Cile” (2003); “Ospiti” (2010); “Nannetti” (2012) da cui è stato tratto il cortometraggio “Libro di sabbia”, realizzato con il regista Lucio Fiorentino; “Lessico di Hiroshima” (2015) portato in scena con musiche originali composte da Roberto Conz ed eseguite da Marco Dalpane e “L’ unica notte che abbiamo” (EXòrma, 2020).Ha lavorato inoltre come sceneggiatore ed è stato co-autore di cortometraggi.

 


NannettiScheda libro

 

 

 

Titolo: Nannetti. La polvere delle parole

Autore: Paolo Miorandi

Editore: Exòrma

Data pubblicazione: 2022


 

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Un commento

  1. La recensione della Epifani è un vero e proprio “saggio breve”, preciso e puntuale.
    Il libro di Paolo Miorandi è semplicemente meraviglioso: ricco, emozionante, denso; dotto sottotraccia. Una scrittura stupefacente, ipnotica ed estremamente moderna.
    Con l’auspicio che possiate leggerlo!
    Anna

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