sabino napolitano

Il rumore della morte. Racconto di Sabino Napolitano

di Sabino Napolitano

«Condoglianze, Marcello!» e poi un abbraccio, uno sguardo che sembra comprendere il dolore.
«Lo so come ti senti!» … un altro abbraccio, una carezza …
«Ci sono passato anch’io due anni fa!» … altro abbraccio, altre carezze …
Uno, due, dieci abbracci … volti che si sovrappongono senza soluzione di continuità, braccia che cingono spalle, parole a volte biascicate a mezza voce … altri volti … altre braccia …
E poi ancora abbracci e mani che si stringono e sguardi tristi che si posano sfuggenti.
Un segno di croce, una preghiera … altri volti …
Ecco, gli zii, gli amici, i colleghi di lavoro … qualche volto si affaccia incerto nella stanza, forse conosceva appena qualcuno di famiglia …
Un sussurro: «Quello è il figlio?»; qualcuno risponde a mezza voce: «No, il figlio è quello seduto laggiù!».
Fastidio!
Ora forse avrebbe preferito essere lì da solo …
Qualcuno si è fermato nella stanza accanto a chiedere quando è successo e a meravigliarsi di come le cose fossero precipitate così all’improvviso e che «poverina, ha sofferto tanto!» e che «era tanto buona» e che «ha sempre fatto tutto per i figli» …
E poi a parlare del tempo che pare sia veramente molto freddo e quella pioviggine continua che non si sa se aprire o no l’ombrello …
E poi a dire del proprio figlio «no, Francesco è il maggiore, parlo di Luca, il piccolo di casa» che «adesso fa l’università» e che «però, come passa il tempo» …
Brusìo!
Una specie di rumore di fondo che non c’entra nulla, come se a teatro tutti quelli della fila dietro si siano messi a parlottare sottovoce, tutti insieme, tutti nello stesso momento, ma non puoi dirgli di andarsene.
Brusìo… Fastidio…Rumore. Fa rumore, la morte.
E’… qual è il rumore della morte?
Forse il rumore silente di una fiammella che si spegne?
Oppure quello sfacciato e deciso di una porta che si chiude, sbattendo forte sotto la spinta violenta di un vento impetuoso?
O forse il raschiare gracchiante di unghie feline che si aggrappano alla vita come su un vetro?
A volte può essere il brusìo fastidioso di un chiacchiericcio che turba inatteso il silenzio della notte?
Ci pensava Marcello, in piedi accanto al sonno ultimo di sua madre, ma non sentiva nessun rumore, anzi … ora gli sembrava di sentire il silenzio intorno a lui.
Era la prima volta che guardava in faccia la morte e aveva i lineamenti di sua madre.
Molti anni prima non si era quasi nemmeno reso conto della perdita di suo padre; come può capire la morte un bambino di cinque anni che ancora non ha scoperto davvero la vita?
Era stato come se il padre fosse partito per un lungo viaggio dal quale non aveva ancora fatto ritorno.
Adesso era diverso, anche se la morte di sua madre era un evento che ormai attendeva con angoscia, da quando un colpo bastardo l’aveva colpita, lasciandole solo quel flebile filo che ancora la teneva aggrappata alla vita.
La donna con i capelli argentati che ora gli stava davanti, distesa in un sorriso finalmente sereno, era quella che lo aveva sostenuto fin dai suoi primi passi incerti, tenendogli le briglie da puledro scalpitante e ancora malfermo sulle gambe.
Gli piaceva inseguire le farfalle allora, nei prati davanti alla casa e poi sulla spiaggia, dove passavano a frotte in certe giornate estive e, chissà per andar dove, si chiedeva lui.
«Non cercare di prenderle;» diceva con dolcezza la mamma «guardale soltanto. Non devi imprigionare la loro bellezza. Loro sono nate libere, come te!».
Sua madre era quella che lo aveva consolato nei pianti disperati dell’età infantile, quando le lacrime sbocciavano copiose sui suoi teneri occhi capricciosi; un giocattolo, un gelato, bastava poco a scatenare la sua disperazione.
Sua madre era quella che aveva raccolto le prime confidenze giovanili, i suoi primi sentimenti, le sue prime delusioni.
Quando gli occhi verdi di Sofia lo avevano stregato e poi quando l’aveva vista in giro mano nella mano con un altro e gli era sprofondato il terreno sotto i piedi, sua madre aveva riempito i suoi silenzi e raccolto i suoi pensieri.
Era quella che aveva sostenuto le sue speranze e incoraggiato i suoi sogni, sempre presente con una parola, un sorriso, una carezza.
Quando temeva di non farcela, quando la speranza e l’entusiasmo non erano abbastanza, lei c’era a dargli forza, a spingerlo oltre l’ostacolo.
Nei lunghi mesi nei quali lei aveva strappato la vita, dopo quel colpo vigliacco della malattia, quando non riusciva più a parlare e guardava con gli occhi vuoti davanti a sé, lui era andato a trovarla con fatica, quasi con il fastidioso desiderio di fuggirsene via appena possibile.
Lei gli stringeva la mano senza parlare, come se il solo contatto le facesse sentire di essere ancora viva.
A volte lo guardava e cercava forse di dire parole che lui percepiva solo come suoni disarticolati.
Contava i minuti che passavano lenti e sentiva arrivare quasi come una liberazione il momento in cui sarebbe uscito da quella casa, sarebbe tornato alla sua vita normale, sua moglie, i suoi figli, il lavoro, le cose concrete della sua vita, che costituivano le sue certezze.
Oh, aveva sempre fatto per lei tutto ciò che si doveva: la badante, le cure, l’assistenza, la spesa, ma ogni momento trascorso vicino al silenzioso dolore di sua madre era stato per lui come un tempo sospeso, non vissuto, rifiutato.
Allora Marcello si era assolto con le attenuanti generiche del lavoro, della famiglia e con l’assicurazione a sé stesso che, in fondo, non poteva fare di più.
Ora sentiva che i suoi conti non tornavano, che con sua madre aveva accumulato un debito d’amore che non avrebbe più avuto modo di saldare.
Forse nel luogo dove sarebbe andata ora sua madre, qualunque fosse, non ci si preoccupava di quel tipo di debiti; lui però era ancora da questa parte del confine, dove avrebbe solo potuto pagare ogni giorno una quota di amarezza, senza mai poter cancellare neppure un centesimo di quel debito.
Oh, certo! Restava pur sempre la pietà dei vivi, che sarebbe servita a mantenere la memoria.
Così magari sarebbe andato a visitare spesso il sepolcro dove sua madre avrebbe riposato, le avrebbe portato fiori e acceso lumini.
Questo però non avrebbe surrogato il tempo perduto.
Ma che stava succedendo, ora?
Gli sembrava che sua madre avesse aperto gli occhi e, girando il viso dalla sua parte, gli diceva sorridendo: «Non hai nessun debito con me; non tormentarti! Per me non avresti potuto fare più nulla. Io stessa avrei voluto dirti di tornare alla tua vita: la mia non era ormai più qui».
Poi lei si era alzata, ma aveva il viso di molti anni prima, gli aveva fatto una carezza tra i capelli ed era uscita.
La donna con i capelli argentati era ancora lì distesa e immobile; Marcello ora sorrideva.


L’autore

Sabino Napolitano è nato in un piccolo paese del ferrarese e vive ad Andria, in Puglia. Ingegnere elettronico, con studi classici alle spalle, dopo 40 anni tra sistemi informativi e management aziendale, scopre che gli è rimasta una voglia inespressa: quella di raccontare storie.
Nel 2022 ha pubblicato il primo romanzo thriller dal titolo “Il destino del calamaro” per i tipi di PAV Edizioni.
Nel 2023 il nuovo romanzo “Caccia all’uomo nero” ha vinto il premio per il “miglior personaggio non protagonista” alla 4ª edizione del concorso letterario nazionale Giallo Festival 2022.


Il rumore della morte. Racconto di Sabino Napolitano – Il Cappuccino delle Cinque

di Sabino Napolitano

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Autore: Sabino Napolitano

Pubblicato in Racconti.

2 Commenti

  1. Testo molto intenso che fa pensare. La lettura è scorrevole. Belle e suggestive le similitudini che descrivono il rumore della morte. Congratulazioni.

  2. mentre leggevo il mio pensiero è ritornato indietro di 14 anni fa quando la mamma ci ha lasciati,ma direi ancora prima durante la malattia. il racconto l’ho letto tutto di un fiato. come sempre mi hai emozionata. non posso dirti altro che …continua così

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