il ladro di maigret recensione

Il ladro di Maigret, dove è il poliziotto a essere derubato

Siamo nella coda simenoniana: è il sessantaseiesimo romanzo su 75 che l’autore scriverà, qualcuno lo giudica debole, non tra i migliori, insomma. In realtà “Il ladro di Maigret” è un romanzo che si legge con piacere, ricco di umanità, e anche di compassione, un viaggio dentro la psiche, nel profondo delle nostre finzioni. Pagine che tengono incollato il lettore alle righe, fino alla fine, accompagnandolo dentro una fine indagine psicologica che il commissario parigino conduce partendo da un fatto inopinato: qualcuno lo ha derubato.

Il ladro di Maigret, la recensione del romanzo giallo

Sì, perché Maigret – il quale, come sappiamo, si muove spesso con i mezzi pubblici – per recarsi dalla sua abitazione di Boulevard Richard-Lenoir agli uffici della polizia giudiziaria al Quai des Orfèvres, sale su uno degli ultimi autobus con la piattaforma scoperta ed è lì, tra i passeggeri stipati, che un giovane gli sottrae il portafoglio che, oltre ai documenti, oltre a una cinquantina di franchi, contiene anche il prezioso distintivo: «un bel distintivo d’argento», che su una faccia ha «una Marianna col berretto frigio, le lettere RF e la parola ‘Polizia’ all’interno di una cornice di smalto rosso. Sull’altra faccia lo stemma di Parigi, un numero e, inciso a piccoli caratteri, il nome del titolare».
La vera sorpresa, però, non è il poliziotto derubato, ma è la restituzione del maltolto da parte del ladro che, leggendo l’arcinoto nome del commissario proprio sul distintivo, decide di restituire tutto; anzi, sarà lo stesso ladro a cercare l’aiuto di Maigret per un caso di omicidio che lo vuole colpevole a tutti i costi.

L’indagine psicologica di Maigret

Ed è da questo momento in poi che il commissario si immerge in un’investigazione che è una vera e propria esplorazione della psicologia non solo del ladro pentito (François Ricain, «un giovane fuori dal comune»), ma anche di uomini e donne che fanno parte del giro del giovane, tutti possibili colpevoli, tutti sospettati di omicidio.

La galleria dei personaggi è formidabile: l’attricetta che si venderebbe al diavolo pur di ottenere successo, il regista squattrinato che sogna la gloria, l’artista alcolizzato, il produttore in cerca di giovani talenti a poco prezzo… Come sempre Simenon riesce a farci vivere in quel microcosmo che crea letterariamente.

Quante volte leggendo i suoi romanzi, abbiamo avuto l’impressione di passeggiare con Maigret nelle vie di Parigi o di sorseggiare una birra dentro la Brasserie Dauphine? Ed è così anche questa volta, perchè la vera dote di Simenon – che scriveva un romanzo in sette giorni e aveva un metodo tutto suo per costruire l’intreccio – è quella di far vivere il lettore dentro al libro, di renderlo partecipe degli avvenimenti, di mettergli davanti agli una strada, un palazzo, una via, di fargli annusare gli odori, udire il suono delle voci e il rumore delle città, e non c’è dubbio che questa sia, al di là della qualità della scrittura di ciascun autore, la discriminante per far di uno scrittore un autore di best-seller.

Questa volta Simenon ci porta al Vieux-Pressoir, un locale dove si ritrova quel mondo del cinema che è ai confini, fatto più di comparse che di protagonisti, più di alcol che di pellicola, più di sesso che di doti attoriali. Ristorante dall’«atmosfera un po’ ovattata e un po’ sciropposa», con una buona cucina, dove si prepara un’ottima chaudrée (una zuppa di pesce tradizionale, con varianti locali, originaria delle regioni costiere atlantiche della Charente-Maritime e della Vandea, dove, tra l’altro, Simenon aveva abitato) e si beve un bianco «delle Charentes che si trova raramente in commercio», il Vieux-Pressoir è il luogo centrale dell’indagine e ospita Maigret che attentamente osserva l’umanità che gli si para davanti.

Un giallo nella società che cambia

Non c’è banalità descrittiva, non ci sono maschere, c’è, invece, la capacità di Maigret di cogliere particolari, atmosfere, dialoghi, stati d’animo e di condurre la sua indagine che parte dal furto subito sulla piattaforma del bus e arriva alla scoperta del colpevole, attraversando una società che cambia. Simenon scrive “Le voleur de Maigret” nel 1966: ci sono i pantaloni di lamè, i servizi fotografici sui teenager, i beatnik, i balli moderni («Insomma se si può chiamarlo ballare…») e lo stesso Francois indossa «come molti giovani, un maglione a collo alto al posto di camicia e cravatta», il dolcevita, capo d’abbigliamento iconico dell’esistenzialismo francese.

Ci sono alcune pagine dove il cambiamento sociale profondo e radicale si comprende grazie al confronto e allo scontro generazionale, quando arrivano al Quai i genitori di François e della sua giovane moglie Sophie. Quei genitori (in entrambi i casi si tratta del padre) non hanno nulla a che vedere coi figli, sono un altro mondo, quello cui appartiene anche Maigret; fanno fatica a capire, nonostante l’amore paterno che esprimono.
A un certo punto, il babbo di François consegna del denaro al commissario affinché lo dia al suo posto al figlio. Gli lascia del denaro ma non ha il coraggio di incontrarlo: «… estrasse dalla tasca un portafoglio logoro, da cui prese parecchie banconote da cento franchi. (…) Maigret, commosso, guardava il denaro che una mano ampia, callosa, dalle unghie quadrate, stava posando sulla scrivania».

Recitare per mascherare debolezze e fallimen

L’indagine si snoda attraverso dialoghi, riflessioni solitarie, attente disamine dei comportamenti umani. C’è anche una vera e propria dichiarazione di “poetica poliziesca”: all’inizio del quinto capitolo, Simenon spiega nel dettaglio le varie fasi che compongono il modus operandi del commissario. L’iniziale incertezza, in cui il commissario sembra muoversi, la fase in cui Maigret cerca di assorbire tutto dell’ambiente sconosciuto in cui si trova a indagare, quasi se ne imbevesse come una spugna; il guazzabuglio di dati e impressioni da cui il poliziotto deve far emergere la verità.

Andrà esattamente così anche in questo caso. L’omicida sarà da scovare «nella luce rosata e nei buoni odori di cucina del Vieux-Pressoir», dove si reca a bere e mangiare la compagnia di produttori, fotografi, registi, sceneggiatori, attrici con l’aspirazione – a volte la smania – di sfondare nel cinema.

Maigret li ha osservati bene, è entrato nelle loro parole, forse immagina chi sia il colpevole già prima dell’incontrovertibile prova, ma la sua scoperta, la rivelazione della verità, la ricomposizione dell’ordine che il delitto aveva mandato in frantumi, arriverà lasciandolo con un sorrise triste. Alla fine, come nel cinema, la realtà è una recita, dove si costruiscono messinscene per non dover affrontare i fallimenti della vita.


copertina il ladro di maigretScheda del libro

Titolo originale: Le voleur de Maigret

Prima edizione: 1967, Francia

Titolo italiano: Il ladro di Maigret

Editore: Adelphi

Anno: 2009

Traduzione: Elda Necchi

Pubblicato in Narrativa e taggato .

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *