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Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice: la scrittura illuminata

Lo stadio di Wimbledon scritto da Daniele Del Giudice (Einaudi) appare come un piccolo libro importante e difficile da catalogare.
La trama segue il corso di un’indagine, pur non essendo un giallo, e ricostruisce le tracce della vita di un intellettuale, senza appiattire mai la narrazione a una biografia o a un saggio; e anche se molteplici voci rievocano la memoria da una pagina all’altra, non è un racconto corale. Un romanzo di formazione? Nell’istante stesso in cui si pronuncia la parola “romanzo” nasce il dubbio che possa essere definito tale.

Traiettorie

Forse davvero solo per negazione si può attribuire un’identità al libro che Calvino definì “insolito”, la stessa negazione della domanda che si ripete come un refrain: “perché non ha scritto?
È un libro indefinito, denso, metafisico, capace di mescolare il tempo delle parole scritte con quello reale, di perdersi nelle traiettorie aeree e nella distanza del navigante, che si avvicina “alle cose, misurando quanto” ne è lontano.
È un testo sulla scrittura, su come la pagina interseca la vita reale e su come le vite, a loro volta, si rispecchino in essa e ne facciano parte; quasi un manuale in cui l’autore maneggia le parole con grande rispetto, mostrando quando e come la scrittura possa diventare letteratura.

Uno scrittore senza libri

“Sono venuto qui per capire perché uno scrittore non ha scritto. Ora ogni cosa si dilata.”
Roberto “Bobi” Blazen, critico letterario e importante intellettuale della scena culturale triestina del dopoguerra, è il personaggio su cui si interroga Daniele Del Giudice.
La definizione di “scrittore senza libri” inquadra immediatamente la prospettiva o, come preferirebbe dire l’autore, “la traiettoria” da cui si considera la letteratura: non è la pubblicazione di un’opera che definisce uno scrittore, ma qualcosa di più profondo che interessa la forma e il modo di porsi nei confronti della scrittura e della vita.
“Perché non ha scritto?”
Perché ha preferito lasciare “solo note a piè pagina”, tante lettere e qualche poesia in una città come Trieste con una “visione bibliocentrica” in cui sembrano essere “tutti scrittori”?
“Non si possono più scrivere libri”, diceva Bobi, caratterizzato da una “contrarietà ostinata per ogni strada comune”, ce ne sono troppi, sarebbe “inutile aggiungerne altri”.

Era cosi esigente che forse temeva di non essere “uno scrittore di primissima fila” e anche se tutti si aspettavano “qualcosa di molto buono da lui”, temeva di deluderli. Non era “uno che scrive”, ma “un amico dello scrivere”: come con le donne si poneva a fianco, fuori dalla competizione, conservando “tutte le possibilità”.
“L’opinione più alta dello scrivere ce l’ha quasi sempre chi ha deciso di non farlo”, chi ne ha un giudizio così alto da considerarla sacra.
Preferiva vantarsi di aver fatto “cose migliori”: invece di costruire storie sulla pagina, ispirandosi alla realtà e alle persone che lo circondavano, muoveva le loro esistenze come “un burattinaio”, realizzando “le cose solo attraverso gli altri” e facendo della sua vita “la sua opera”.
Tuttavia poco prima che l’autore possa cogliere questa conclusione come risposta, si accorge che la domanda ha perso importanza: è giunto a una spiegazione più personale, la consapevolezza che “scrivere non è importante” (come vivere e “divertirsi a vivere”) “ma non si può far altro”.

Trieste

Nelle voci che raccontano Blazen, Trieste ne ha una tutta sua, dal timbro potente e distinguibile. Mai sfondo, è una città anfibia e sorprendente con la sua “piazza perfettamente nordica, per tre lati come Salisburgo e sul quarto” “il mare”. Un luogo in cui “dall’Isonzo in qua sono tutti slavi, ma non puoi dirlo a quelli in città che si sentono tedeschi”, commistione di lingue e di origini, ma con un’identità così forte, come il suo “dialetto incontaminato”, vera “forma di resistenza”, da far sentire forestiero chiunque non sia nato lì, al contrario di Londra in cui “non conta più da dove” si viene.

Blazen era un “fiore di questa città” e “di quella particolare epoca”, quella di Saba, Svevo, Giotti e Montale; “quel giovane un po’ curvo, un po’ matto” che attraversava la piazza “con molti libri sotto il braccio” “aveva un fiuto speciale per scovare autori poco noti” di lingua tedesca che, in breve tempo, diventavano famosi. Probabilmente la sua abilità era un lascito della città, che conserva in sé l’Austria, forse nel “tram bianco e azzurro che parte ordinatamente dalla piazza” o nello “spigolo del marciapiede così risaltato” senza la “confusione della polvere” o nell’aiuola “senza terriccio o erba lungo il confine”.

Il tempo

È un tempo tutto letterario quello di Daniele Del Giudice: è relativo, dilatato, personale. “Sono passate poche decine di minuti dall’esclamazione di Svevo” letta in un libro e “la giovane dagli occhi sfavillanti” è diventata vecchia e “tutto” “è durato quanto l’attesa di alcuni autobus”.
È un tempo soggettivo, come “l’acqua che si riapre e si richiude continuamente e solo chi è a bordo sa di essere passato davvero” o come l’attesa che genera “due pensieri, opposti”: come si riuscirà a far passare le ore e se basteranno per prepararsi all’incontro. Infine, è un tempo lento che scandisce l’inerzia o la scarsa mobilità del narratore che aspetta che le “cose che accadono”, senza fare nulla o tutt’al più “scegliendo qualche immagine”.

La prosa

In un libro così fortemente imperniato sul mestiere di scrivere, la prosa di Del Giudice sembra incarnare e inglobare la trama stessa. Lo stile è rarefatto e sospeso e allo stesso tempo denso come certa nebbia, che appare impalpabile ma che ribadisce al tatto la sua natura concreta.
Del Giudice scrive come se avesse in mano l’obiettivo di una macchina fotografica, le sue parole riescono a illuminare un gesto, descrivere una parte, rivelandone la verità. Un continuo discorso fra il soggettivo e l’oggetto, come nelle primissime pagine quando descrive la mattina “limpidissima, quasi primaverile” che “forse” riflette solo il suo essere lì “inspiegabile e leggero” o quando davanti “al languore” di una ragazza sul treno “non si sa come mettere le gambe” perché “di fronte alla malinconia bisogna darsi da fare”.

“Tranquillo e superficiale su chissà quanti metri di profondità”: così è la sua prosa, in grado di galleggiare sulle circostanze narrate come una tavola da surf su metri e metri di acqua.


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Scheda del libro


Titolo:
Lo stadio di Wimbledon

Autore:
Daniele Del Giudice

Editore:
Einaudi

Prima edizione:
Einaudi, 1983

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