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Vittorio Sereni e gli strumenti umani

Un amico, Eugenio Schiavo, ha imbastito una rassegna molto interessante sotto il titolo “La moralità della Resistenza”. Ha chiamato alcuni autori a commentare libri che affrontavano in modo diverso (storico o letterario) questo tema e all’interno di questa rassegna ho proposto qualche riflessione su Gli strumenti umani di Vittorio Sereni.

Vittorio_Sereni-webokCapisco che per questa opera sarebbe più adeguato parlare di “resistenza della moralità” poiché l’autore non aveva potuto conoscere, se non indirettamente, il fervore di quel movimento popolare. Traducendo René Char, un poeta da lui diversissimo, attivo nella Resistenza francese con il nome di ‘capitaine Alexandre’, Vittorio Sereni (foto) annotava: “Ero stato prigioniero di guerra negli stessi anni, avevo fatto un’esperienza passiva e dunque mi attraeva l’esperienza opposta, a me ignota”.
Sereni si era arreso agli americani in Sicilia nel 1943, aveva pensato che sarebbe stato trasferito in un campo di concentramento in America, invece venne imprigionato in Nordafrica fino alla fine del conflitto.

Mi sono chiesto: che cosa intende Sereni con ‘attrazione’ verso la Resistenza? Gli strumenti umani, uno dei libri più alti e innovativi del novecento italiano (non solo al confronto con la contemporanea neo-avanguardia), esce nel 1965, dopo 18 anni dal suo precedente ‘Diario d’Algeria’. Dunque perché quest’opera può farci riflettere su quel periodo storico? Secondo me per due motivi: il primo, per quel sentimento di espulso dalla storia e di impossibilità di rientrarvi che attraversa gran parte dei testi, dislocati lungo l’asse temporale 1948-1963; secondo, perché sembra fare il punto, vent’anni dopo, su quello che resta della “moralità della Resistenza”. Ci sarebbe anche un terzo punto, sul come: cioè come, inaspettatamente, il suo residuale ermetismo sente il bisogno di spiegazioni, o come ha scritto Montale, “rompendo la crosta dell’elegia”.

Anni dopo

Il Vittorio Sereni ermetico o ai confini dell’ermetismo di ‘Frontiera‘ e ‘Diario d’Algeria’ inaugura con questo suo terzo libro una metrica inusuale per lui e soprattutto adotta un verso che si avvicina al racconto lirico, apertamente giornale intimo e diario, con una selezione linguistica che, sotto l’influsso diretto di Saba, comincia a escludere vocaboli nobili e includere la polifonia del parlato.
Comunque, attraverso la lezione di Apollinaire, da lui tradotto, non è detto che in questo nuovo tessuto non possa rientrare l’elegia: “La splendida la delirante pioggia s’è quietata”, oppure altri esempi: “e appena è un bianco giorno e mite di fine inverno. / Che spero io più smarrito tra le cose. / Troppe ceneri sparge attorno a sé la noia”. Oppure la terzina: “Ombra verde ombra, verde-umida e viva. / Per dove negli anni delira / di vividi anni mai avuti un tulipano o una rosa”. Ma alcuni fantasmi del passato emergono, già nella prima sezione: “Uno sguardo di rimando”, e introducono il poemetto centrale, nel senso che sta fuori da ogni sezione e getta la sua ombra sulle successive: “Una visita in fabbrica” (1952-1958).

Sereni era molto attento alla composizione dei libri. Ne ha scritti soltanto quattro di poesia (l’ultimo, ‘Stella variabile’, è del 1981) ed è intervenuto in seguito sulla composizione delle singole opere con meditati e calibrati spostamenti. Il suo corpus occupa un terzo del Meridiano Mondadori, due terzi circa sono note e varianti, senza dubbio utili per gli studi universitari ma che inevitabilmente disturbano e intimoriscono un lettore che vorrebbe semplicemente amare questa poesia. E si sta parlando di un autore che non avrebbe bisogno di eccessive decifrazioni. La critica italiana sembra subire l’incantesimo delle esibizioni fuori luogo.

Una visita in fabbrica

“La L. conosciuta anni fa mi telefona in ufficio. Mi prega di raggiungerla in fabbrica, dove è arrivata con una troupe televisiva per girare un documentario.. Facciamo colazione insieme nella nuovissima, prestigiosissima mensa impiegati. Mi ricordo di una foto di L. Apparsa in tanti fogli e rotocalchi, anche in qualche libro, come un’immagine emblematica del 25 aprile e dell’insurrezione. Una ragazza di nemmeno vent’anni, impermeabile indosso e mitra in pugno. E adesso? Qui a legare l’asino dove vuole il padrone, con me e tutti gli altri qui attorno. Non glielo dico, naturalmente. Ma il suo discorso sui lavori che fa, il suo tono distaccato nel commentarne le vicende… distaccato e spento. Trovo un’analogia col suono della sirena, nel momento in cui si spegneva per la ripresa del lavoro, come una forza che rinunzia”. Questa nota di Sereni si può leggere nelle sue prose ‘Gli immediati dintorni ‘(Il Saggiatore 1983).

Sereni non vede nella fabbrica una forza costruttiva e distruttiva insieme, non vede mutazioni antropologiche come Pasolini ma solo sociali, infatti tutto il primo movimento è dedicato al confronto tra la sirena artigiana, che ancora, debolmente, risuona, e quella delle fabbriche, che venti anni prima aveva alzato la sua voce coraggiosamente per richiamare allo sciopero e alla Resistenza e adesso risulta ormai desueta e inopportuna, o vintage. Sereni ci offre una relazione in versi delle proprie sensazioni e dei pensieri durante la visita, e si chiede se la fabbrica possa essere – così come è strutturata – un luogo di emancipazione e di produzione del benessere (del resto questa realtà sembra quasi indipendente dalla struttura politica e ideologica, a ovest come a est). “La potenza di che inviti si cerchia / che lusinghe: di piste di campi di gioco / di molli prati di stillanti aiuole / e persino fiorirvi, cuore estivo, può superba la rosa”. L’apparenza di modernità. Ma poi: “Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre, / questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente, / rumore che si somma a rumore e presto spavento per me / straniero al grande moto e da questo agganciato”.

Dove sono finite le illusioni di cambiamento radicale della Resistenza? Sereni immagina quante persone hanno lavorato lì, quante vi sono morte, quanto persino vi hanno partorito o abortito, comunque penato. E infine eccoli, i lavoratori. Si innesca nel testo il dialogo, virgolettato. Ci sono anche ricordi di lotta partigiana, frammenti del passato. “… la sacca era chiusa per sempre / e nessun moto di staffette, solo un coro / di rondini a distesa sulla scelta tra cattura / e morte…” Ma qui non è peggio? si chiede Sereni. “C’è vita, sembra, e animazione dentro / quest’altra sacca, uomini in grembiuli neri / che si passano plichi / uniformati al passo delle teleferiche / di trasporto giù in fabbrica. / Salta su / il più buono e il più inerme, cita: / E di me si spende la miglior parte / tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati”.
Ecco la polifonia, non solo verbale, il ritmo spezzato, gli accostamenti alto/basso. La visione di Sereni non è ideologica. E’ un umanesimo ragionato. La situazione può anche indurre all’ira, ma quello che è più importante, più dell’ira è “la chiarezza… addentrarsi / a fondo, sempre più a fondo / sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito / un grido troppo tempo in noi represso / dal fondo di questi asettici inferni”. Dunque, le speranze di costruzione di un nuovo tipo di società sono evaporate e Vittorio Sereni, che per quelle idee, illusioni, utopie e aspettative non ha potuto combattere, ora può soltanto esprimere “con chiarezza” la sua non appartenenza, perché quello è un mondo che sta tradendo gli ideali di giustizia sociale. “Per tutta la città, nelle strade / per poco ancora vuote un assiduo raschiare, / manifesti a brandelli, vanno a brani / le promesse di ieri e lungo i marciapiedi / è già il tritume delle cicale scoppiate. / Sceso all’incrocio un manovratore / lavora allo scambio con la sua spranga, / riavvia giorni e rumore. / – Ecco i soli sconfitti, i veri vinti… – / anonima ammonisce una voce”. Una voce. Anonima. Qui si avverte una solidarietà inerme e una sorta di colpa originaria. Lui non aveva vissuto quel tentativo di partecipare in prima persona e con la propria responsabilità. Imprigionato e lontano, in un campo di concentramento in Algeria, viveva in un tempo sospeso, come un fantasma: “Un’immagine nostra / stravolta, non giunta alla luce”. E sempre dal ‘Diario d’Algeria‘ : “Non sanno d’essere morti / i morti come noi, / non hanno pace”. Poi dirà: “Tardi, anche tu li hai uditi / quei passi che salivano alla morte / indrappellati / in ordine sparso di un settembre / dai suoi già freddi ori…” ma sono i suoi ricordi da militare (tra l’altro aveva fatto l’addestramento da ufficiale, il CAR, a Fano) che si sovrappongono alle descrizioni del libro di Roberto Battaglia ‘Storia della Resistenza italiana‘.

Agli studenti di Parma che lo hanno incontrato nel 1979 ha detto: “Il lato veramente negativo consisteva nel sentirsi espulsi dalla storia, in una situazione di impotenza, di impossibilità di agire pur sapendo quello che stava succedendo in Italia” (‘Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole’, Pratiche editrice, 1981).

Ero, come sempre, in ritardo

Nella poesia “Un sognoVittorio Sereni mette in scena la lotta simbolica tra un io che vuole vivere senza supporti ideologici, con naturalezza e spontaneità, e un io che subisce la pressione della storia: “Avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte / in piena solitudine”. Anche l’ironia finale ricorda il racconto di Kafka ‘Descrizione di una battaglia’ : “non lo so / chi finirà nel fiume”.
Semplicità e chiarezza, l’onestà intellettuale dei sentimenti, il dialogo continuo con la propria coscienza, questi sono i suoi strumenti umani. Dunque come uscire dopo una delirante pioggia e ritornare all’aperto, avvertire un brusio che viene dal passato e un’implorazione per qualcosa che si è perso, che si perde? Vittorio Sereni, come dirigente della Mondadori, viaggia. Visita tanti luoghi ma non torna in Algeria. Si reca invece ad ‘Amsterdam’ e ci regala una delle più belle poesie italiane di ogni tempo. Qui non c’è proprio bisogno di alcuna spiegazione o commento. Si può solo, con devozione, trascriverla:

A portarmi fu il caso tra le nove
e le dieci d’una domenica mattina
svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra
lungo il semigelo d’un canale. E non
questa è la casa, ma soltanto
mille volte già vista –
sul cartello dimesso: “Casa di Anna Frank”.

Disse più tardi il mio compagno: quella
di Anna Frank non dev’essere, non è
privilegiata memoria. Ce ne furono tanti
che crollarono per sola fame
senza il tempo di scriverlo.
Lei, è vero, lo scrisse.
Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale
continuavo a cercarla senza trovarla più
ritrovandola sempre.
Per questo è una e insondabile Amsterdam
nei suoi tre quattro variabili elementi
che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi
tre quattro fradici o acerbi colori
che quanto è grande il suo spazio perpetua,
anima che s’irraggia ferma e limpida
su migliaia d’altri volti, germe
dovunque e germoglio di Anna Frank.
Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.

“Tutti continuiamo ad essere uomini che non hanno partecipato, che hanno mancato le esperienze storiche fondamentali, poiché queste, quando ci sono state, si sono svolte altrove e lontano, in assenza di noi. Per questo – ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo – l’umanissimo poeta che è Sereni continua a rappresentarci tutti”.


Gli-strumenti-umani-Vittorio-Sereni-webokScheda libro

 

Titolo: Gli strumenti umani

Autore: Vittorio Sereni

Casa editrice: Il Saggiatore

Anno: 2018

Pagine: 154

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