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Vicolo dell’acciaio di Cosimo Argentina, manifesto della realtà

Cosimo Argentina vince la II edizione del Premio Letterario Nazionale ‘Città di Ceglie Messapica‘ 2023 con Vicolo dell’acciaio (Hacca editore). Il protagonista, Mino Palata, narra gli accadimenti di una generazione che vive in un quartiere, quello di Via Calabria, dove Cosimo Argentina è in realtà cresciuto. Qui la maggior parte delle famiglie «se la spassa nel siderurgico».

Chi è Cosimo Argentina?

Nato a Taranto nel 1963 e laureato in Giurisprudenza (con specializzazione in Criminologia), ha lavorato come giornalista e procuratore legale. Oggi vive in Brianza, dove insegna Diritto ed Economia come professore ordinario in un liceo statale. Ha esordito nel 1999 con Il cadetto edito da Marsilio, il primo romanzo della quadrilogia tarantina.

Vicolo dell’acciaio: la storia

«Cit’ammuert!»
«Ce stè ddic? »
Iangele Cite…du ‘u quart pian’!»
Con questo breve e aspro dialogo, Cosimo Argentina ci porta al numero 75 di via Calabria, in un condominio dove quasi tutti i padri lavorano all’Ilva. Entriamo, pagina dopo pagina, in un girone dell’inferno, un deposito umano composto da uomini da muro che dopo aver terminato il loro turno nell’acciaieria si sistemano davanti al bar di mest’ Arture e tracannano una birra, un’altra e un’altra ancora. Sono «gechi che resistono contro il muro di Mest’Arture che si fa bollente ogni giorno di più» (p.87).

Le donne sono anch’esse sconfitte come i loro compagni, si sono arrese al destino: hanno abbracciato la croce e sopportano il sacrificio.
La loro vita è solo sacrificio: il mostro reclama offerte. Prima o poi, l’Ilva ti marchia e ti uccide. Diverse sono le sue armi: un tumore che consuma, un macchinario che ti frantuma. E che dire della depressione e dell‘alcolismo?
Il destino è segnato. All’Ilva, creatura orribile dal fascino perverso, non si sottrae nessuno: «Il 24 novembre mi presento ai cancelli dell’inferno per il primo turno. Porto con orgoglio la tuta verde sotto il braccio e fumo una sigaretta stratta tra i denti con il collo incassato nelle spalle per il freddo pungente che avvolge l’area industriale di prima mattina. […] Nà…ma quidde no jè ‘ figghie d’ Camille Palate?» (pp.266-267).

Taranto d’acciaio

Taranto: una città in lutto che Cosimo Argentina conosce bene; un luogo che ha marchiato la sua scrittura.
Taranto: città sempre al centro di annose controversie, continua ad essere schiacciata dal nero dei fumi dell’Ilva, l’impianto siderurgico più inquinante d’Europa, il cui nome si rifà all’isola d’Elba dove circa 2500 anni fa gli Etruschi fabbricavano ferro, denominata la fumosa, proprio per il fumo dei suoi forni.
Taranto: dai fasti della Magna Grecia all’Ilva, madre perfida e crudele che ha offerto lavoro, disgrazie e malattie.
Taranto: città elegante e con una lunga storia, torturata oggi dall’alta incidenza del cancro, squarciata dal caldo dei forni, affollata da corpi sfiancati dopo un turno di lavoro opprimente infinito.
Taranto: abitata da persone che, nonostante il disastro dell’acciaieria, portano dignitosamente avanti i loro principi, nella speranza, mai vana, di un futuro più dignitoso per il loro figli.

Mino Palata

In Vicolo dell’acciaio Mino Palata è il protagonista e voce narrante; attraverso i suoi occhi, ci inoltriamo in un quartiere della periferia tarantina chiamato vicolo dell’acciaio, imbottito di casermoni e consumato dai pianti lamentosi, tumori e sogni distrutti, dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico.
Mino, iscritto dai suoi all’Università con il fine di migliorare la condizione socio-economica, avere qualche sbocco per il futuro e salvarsi dal destino che lo attende, si adagia sullo stallo delle vite del quartiere e langue. Un giorno prima di recarsi a Bari per pagare le tasse universitarie, ha guardato in faccia la madre che scuciva i soldi del borsellino. «Sangue di Giuda, lei è convinta di stare investendo su Mino Palata, su un cavallo sicuro, ma io vorrei urlarle dietro “ehi, mà, impiegali in quel famoso ferro da stiro, quei soldi, che tanto qui non si mettono fichi nel panaro e io un avvocato probabilmente non lo sarò mai!”» (p.81).

Mino non studia e preferisce trascorrere il tempo con Isa, orfana di Trottola giustiziato dalla fabbrica, una sudanese dagli occhi chiari chiari (p. 72), la cui madre, Maddalena, denominata la dea condominiale del Montegranaro, è altrettanto bella: «una femmina doc, una sempreverde che per due, tre anni è stata l’unica bionda del vicolo, direi del quartiere»(p.38). Isa appartiene al vicolo dell’acciaio, ma tenta di estendere le proprie conoscenze per confrontarsi con gli “ambientalisti da salotto” che Mino non tollera perché sono approfittatori: sfruttano il dolore per ottenere visibilità.
Mino non desidera scappare via dal suo mondo, vuole appartenere al vicolo e restare sé stesso. E così scrive racconti brevi che gli servono per oltrepassare il muro di via Calabria: non sono per lui una chance, sono solo un impulso. Mino, nonostante la giovane età, possiede una sensibilità tale da essere capace di analizzare il mondo ristretto in cui vive, utilizzando un linguaggio gergale pieno di ironia tagliente. Isa, incitandolo, gli dirà: «Mì, tu c’hai il dono! […] le dobbiamo [le due paginette] far leggere al Professore» (p.110).
Mino si lascia irretire, senza reagire più di tanto, da quell’ordine malato degli eventi perché il vicolo dell’acciaio è uno spazio dell’anima, è una famiglia che ti accoglie.

Il Generale

Il padre di Mino è il Generale, autoritario e scontroso, figura imponente venerata dai famigliari e dagli amici. Il Generale è un uomo forte, venuto a Taranto dal Nord, «parla il tarantino meglio dei tarantini» (p.15); è un combattente che lotta ogni giorno nell’inferno dell’acciaieria, dove si sottopone ai turni più massacranti, «in una immensa fornace come…quasi come un antico nobile guerriero che forgia le proprie armi e per questo alla fine paga dazio ai supplizianti» (p.181). Il Generale non ama le chiacchiere e osserva la realtà durissima nella quale sono costretti a vivere e a lavorare: all’Ilva si muore con una frequenza altissima. La morte puzzolente di polvere rossa, marchiata dall’acciaio, prima o poi strizza l’occhiolino a ogni famiglia. Ha una sua idea degli uomini: «per lui sono tutti imboscati: dal presidente della repubblica fino a Locascio. Per lui solo i prima linea sono degni di essere defìniti maschi lavoratori» (p.11).

Al funerale di Trotta

In chiesa, operaio, compagno di trincea di Trottola, accostandosi al leggio, prende un pezzo di carta e legge: «Ubaldo Lamanna è stato uno di noi. Qui è come in guerra, né più, né meno. E Ubaldo ha lottato per… semplicemente portare a casa il pane come ogni padre perbene fa per i suoi figli. Per far ciò è dovuto entrare in quel luogo maledetto che lo ha corroso. Entrare in una cockeria equivale a suicidarsi anche se poco alla volta. Ognuno di noi lo sa. I padroni lo sanno, I politici lo sanno» (p.78). Parole vere che sintetizzano la realtà dell’acciaieria tarantina e le morti per tumore dei suoi lavoratori, completamente abbandonati alla mercé della sorte e lasciati morire senza pietà. Ma non è solo l’Ilva a uccidere. È l’ipocrisia di chi mantiene i fili della vicenda, un Mangiafuoco della modernità, pronto a nascondersi dietro un perbenismo di facciata e di comodo. «Sappiamo che questo grido di dolore nasce e muore in questa chiesa. Sappiamo che chi si arricchisce con il nostro lavoro è sordo e insensibile alle parole […] Il tumore di Lamanna è un evento trascurabile, per i padroni. Io stesso ho il cancro al polmone sinistro. Verrò operato a Lecce […] I morti per lavoro non dovrebbero esistere… è una contraddizione in termini. Uno lavora per vivere e per permettere di vivere alla propria famiglia» (pp.79-80).
Un vero e proprio manifesto della realtà che i lavoratori della Taranto dell’Ilva sono costretti a subire. È come «stare su un campo di battaglia. Trottola è solo l’ultimo fante che s’è beccato una pallottola in pieno cranio» (p.65).
Ogni ribellione sembra inutile. Nell’accaiocomio ogni lotta muore e sfiata. Oggi come ieri.

Il Sud e la sua lingua

Il Sud marchiato da una centenaria disperazione dove ogni movimento verso un cambiamento è impossibile: tutto è in ogni modo identico a sé stesso. Cosimo Argentina ha fatto spesso ricorso al dialetto violento e volgare che contrassegna con esperta concretezza i diversi capitoli e i dialoghi tra i personaggi, facendosi ossatura della narrazione. E’ un racconto abbracciato e stretto agli spazi e ai personaggi che hanno accompagnato la sua crescita, segnandola profondamente. Come un fiume in piena, la narrazione di Cosimo Argentina è barbicata nella terra di nascita, con le sue consuetudini e usanze, terra che, in ogni caso, intesse una sua rete di protezione e di appoggio.
Tutto ci appare reale e pulsante attraverso il registro stilistico che abilmente racconta le vite destinate a piegarsi e soccombere, perché il vicolo dell’acciaio irretisce e stritola i sogni, ottenebra i desideri e colma l’anima di morte.

Vicolo dell’acciaio: conclusioni

Ai fottuti: è questa l’epigrafe che Cosimo Argentina ha scritto. Una dedica azzeccata e in perfetta sintonia con il contenuto narrativo. Vicolo dell’acciaio è un romanzo di indubbio valore storico-sociale, scritto da uno scrittore dalla voce unica e lirica che negli anni è rimasto sempre fedele alla sua poetica. L’autore tarantino sa parlare ai lettori, alla loro pancia e al loro cuore, con un realismo che colpisce nel segno, raccontandoci come, per alcune realtà e spazi geografici, la vita non è dolce e non dà scampo: solo rassegnazione e dolore in un infinito e continuo ripetersi.

«Quando sei nella merda non devi far da altro che guardare quello che ha ingoiato più merda di te, in via Calabria» (p.208).
Vicolo dell’acciaio: vale la pena di leggerlo.


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Scheda libro Vicolo dell’acciaio

Titolo: Vicolo dell’acciaio

 

Autore: Cosimo Argentina

 

Casa editrice: Hacca edizioni

 

Anno: 2022


 

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