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“Il lavoro culturale” di Luciano Bianciardi

Non sempre i libri ci appaiono nella loro dimensione. Può dipendere dalla nostra attenzione in quel momento o dal momento storico in cui si leggono. Dall’età. Un libro riletto ad un’età diversa sembra davvero diverso e le impressioni con le quali lo avevamo classificato nella nostra memoria si dissolvono (a volte si confermano).

Elogio delle riletture

Comunque rileggere fa bene, se avvertiamo una inconscia attrazione verso quel titolo e quell’autore mentre l’occhio si sofferma sul dorso e la testa si inclina per leggere: in questo caso  Il lavoro culturale di Luciano Bianciardi (Feltrinelli) è un libro esile, vecchio, poco più di cento pagine (dipende dal corpo del carattere), ma il sorriso che sorge spontaneo è già un sì: non ci spaventa l’anno di pubblicazione, il 1964, perché la nostra coscienza, o un oscuro intuito che pesca nell’inconscio, suggeriscono una sua attualità, cioè che la rilettura potrebbe essere una riscoperta.

Lantimeridiano-bianciardi-webL’autore

La vita di Luciano Bianciardi è troppo “narrativa”, sorprendente, intrigante per raccontarla in poche righe. Partito da Grosseto, dove aveva lasciato la moglie e due figli, vive a Milano, impiegato alla nascente Feltrinelli. “E mi licenziarono soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile”. Feltrinelli gli garantisce però un lavoro continuo di traduzione dall’inglese. Centoventi libri in diciotto anni. Ma contemporaneamente pubblica da Feltrinelli nel 1957 Il lavoro culturale (poi rivisto nel 1964 con l’aggiunta dell’appendice conclusiva Ritorno a Kansas City).
Un ibrido: autobiografia, pamphlet, saggio di costume. Brilla l’ironia, soprattutto l’insopportazione per tutto ciò che puzza di istituzionale. Massimo Coppola e Alberto Piccinini, nell’introduzione al primo volume delle sue opere (L’antimeridiano. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili. Isbn editore, 2005) scrivono “Alla Feltrinelli canzona ‘il giaguaro’ Giangiacomo e la sua corte di micetti; al ‘Giorno’ prende in giro Giorgio Bocca per le sue frequentazioni mondane; nella tribuna stampa di San Siro dà sui nervi a Gianni Brera parlandogli di filologia ungherese durante un attacco dell’Inter…”.
Bianciardi è caratterialmente estraneo a quel mondo ma lo frequenta, e lo prende in giro collaborando anche al cabaret del Derby club, quello di Enzo Jannacci, Beppe Viola, Cochi e Renato eccetera. Dopo il capolavoro La vita agra (1962), si isola a Rapallo, scrive sull’epica del Risorgimento, la mescola con l’attualità: La battaglia soda (1964), Aprire il fuoco (1969), intristisce, imbocca la via dell’autodistruzione con l’alcol. Come si fa a riassumere una vita intensa, che si riversa nei suoi libri anche quando parla del Risorgimento? Non si fa.

bibliobus-webIl lavoro culturale

Luciano Bianciardi è sempre stato un riferimento, se non un mito, per i bibliotecari. L’invenzione del bibliobus (nella foto) che portava libri nelle zone più lontane dal centro di Grosseto è stata senza dubbio un’iniziativa originale per quei primi anni cinquanta. Ma il primo capitolo de Il lavoro culturale ironizza proprio su quella cultura dotta e locale da cui lui vuole subito prendere le distanze. Lo fa con delicatezza e affabile ironia. Illustra le varie posizioni degli studiosi, un po’ alla Swift (La battaglia dei libri), e quindi parla dei giovani, attratti dalle nuove prospettive culturali e che paragonavano la loro città a Kansas City.

Nel secondo capitolo illustra le posizioni politiche più diffuse, con quell’impasto semiserio che, anche quando parla di drammi, si capisce che intende colpire soprattutto il conformismo, di ogni tipo. Non lo sopporta. E nel terzo capitolo il narratore, che non ha nome, introduce il personaggio di Marcello, sostanzialmente un alter ego: lui calciatore e atleta mentre il fratello è uno studioso, il primo della classe, in rivalità con un altro studente, primo della classe in cultura fascista. “Una volta che ci dettero, come tema di italiano, da commentare una frase del duce, a nostra scelta, Marcello ne prese una che Mussolini aveva scritto nel 1914, e che era contro l’intervento in guerra. Successe un pandemonio e nostro padre dovette far intervenire un parente lontano, di Roma, che era pezzo grosso non ricordo dove”.

Poi vanno tutti in guerra e tornano delusi e sconfitti. Marcello spiega che comandava povera gente analfabeta, quindi aggiunge che la cultura “non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, a capire il male”. Kansas City, il cinema, il jazz, tutto giusto ma bisogna che la cultura sia aperta a tutti. Così Marcello sposa una ragazza semplice e in famiglia tutti sono scontenti, anzi arrabbiati. “Chissà poi cosa avrebbero detto le zie. Noi avevano una trentina di zie, sparpagliate per mezza Italia”. Eh la coerenza. Altri tempi, un paese che stava costruendo il suo boom economico, che discuteva animosamente su tutto, di solito con faziosità e passioni ideologiche che frantumavano i fatti in mille pezzetti irriconoscibili. Ma ognuno coerente, appunto, o quasi.

Il cineclub

La fondazione del cineclub segna il passaggio dai vecchi riti culturali, elitari, ai nuovi, più popolari. Poi però bisogna darsi un’organizzazione, ci vuole un presidente, si chiama il noto critico venuto da Roma. E qui le cose diventano da un lato cupe dall’altro esilaranti. Ladri di biciclette diventa oggetto di dibattito. Il noto critico è palesemente settario, e come un inquisitore cerca i fotogrammi più deleteri, colpevolmente borghesi, non parla di tecnica cinematografica ma di correttezza del messaggio politico: “L’operaio Ricci attacca i manifesti, no? Quanti sono, in Italia, gli attacchini? E quanti i braccianti? Quanti i siderurgici? Non ho con me i dati esatti, ma la non tipicità dell’uomo di De Sica mi pare di per sé evidente, no? E guardava in viso Marcello, duramente, come se la colpa fosse sua e non di De Sica”.

Inoltre, prosegue il noto critico, “non è inserito nelle lotte del lavoro, è un uomo solo”. Infatti, azzarda Marcello: il nocciolo drammatico non è nella solitudine? Marcello non è fortunato, neanche stavolta, sebbene non ci sia bisogno del parente da Roma. Bianciardi descrive questo mondo provinciale come se si trattasse di un reportage storico-antropologico o un saggio di sociologia spicciola ma non bisogna dimenticare che si tratta in realtà di un racconto. Le figure tendono alla caricatura sebbene siano vicine alla realtà. Il noto critico ad esempio beve solo birra Pilsner, per aiutare la Cecoslovacchia… Guardano anche documentari sovietici in lingua originale, ad esempio sul trapianto della cornea, per dimostrare “l’inferiorità netta della chirurgia oftalmica occidentale”. Un’ironia tagliente, amara, quella di Bianciardi, che nello stesso tempo è priva di odio o di rivalse. Ovviamente le persone si stancano di questa demagogia ridicola e cominciano le defezioni. “E l’agente locale della SIAE, ex corridore di motocicletta, era un uomo tenace come un mastino”: pretendeva i diritti musicali anche per i film muti.

Libro, liber

Con elementare pedagogia, Bianciardi ci rifila la storia del libro ma subito dopo ci offre una considerazione sulfurea: “Nell’antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore”. L’analisi prosegue, con calcoli già allora inquietanti (e lo sarebbero di più oggi visto che le proporzioni sono quadruplicate): “Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti, e fors’anche il problema dell’analfabetismo si potrebbe risolvere imponendo a ciascun autore di insegnare a leggere a un analfabeta, servendosi del suo libro inedito come di un sillabario”.
Oppure, si potrebbero scoprire nuove funzioni per la biblioteca. Qui è il Bianciardi bibliotecario della Chelliana di Grosseto a parlare. “La biblioteca della nostra città era stata fondata da una singolare figura di prete garibaldino, illuminista e guerrazziano. Roma lo aveva sospeso a divinis sia per le sue idee sia perché fu sorpreso, una sera, in un certo locale, dove ballava travestito da sergente della guardia nazionale”.

Per rilanciare la biblioteca, pure in questo caso si chiama l’intellettuale da Roma. Dopo la sua relazione, non tutti sono convinti: “Creda a me – diceva il professor Benedetti – oggi c’è troppa gente che va a scuola. Il guaio è tutto lì”. Si presenta anche un problema proto-femminista. Un’insegnate protesta perché bisognava lasciare il cinquanta per cento dei posti ai maschi… “Saltò su l’Ulivieri, uno piccolo, nero, magro e rabbioso. Berciava: ‘E allora? E allora perché voi non ve ne state a casa? A casa, a badare ai figlioli e al marito. Quello è il posto vostro. A lavare i piatti, invece che venire a scuola a levarci il pane”. La professoressa ribatte stizzita. Resta implicito che si tratta di una riunione di sinistra. “Quell’anno nemmeno Marcello aveva avuto il posto al liceo, e nostra madre fece un’altra scenata alla Michelina, come se la colpa, anche questa volta, fosse sua. A Natale, alle zie che piombarono in casa, secondo il loro solito, dicemmo che il posto ce lo aveva, per non fare brutta figura”.

Il linguaggio

Il capitolo sul linguaggio usato nelle discussioni culturali dell’epoca è spassoso, nonostante i tanti anni trascorsi. “Cominciamo subito con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente… Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora di estremo interesse; purché siano, ovviamente, concreti”.
Leggendo queste pagine viene da pensare ai discorsi della politica attuale, di qualsiasi parte e angolazione, e si avverte l’esigenza di poter leggere qualcosa di analogo, oggi, un aggiornamento dell’ironia. Ma dirlo allora, mentre questi vezzi culturali erano un rituale granitico, deve essere stato fortemente derisorio. In ogni caso senza speranza. Infatti il capitolo conclusivo descrive la società culturale grossetana immersa di nuovo nell’aura asfittica dell’erudizione locale, e perfino il suo alter ego Marcello finisce per dedicarsi agli studi sul territorio, dopo aver trovato una sistemazione statale.

Con malinconia il mondo ritorna dunque alle solide consuetudini che permettono di vivere o sopravvivere senza disturbare i grandi sistemi. Stancamente si possono sempre organizzare cineforum, o conferenze sui pellerossa, con gli immancabili intellettuali venuti da fuori, in questo caso da Milano, “con la macchina, perché a Milano tutti hanno la macchina”. Il finale della serata di antropologia nordamericana prevede la proiezione di uno scontatissimo film western.

Il ritorno

Le quattro pagine aggiunte all’edizione del 1964 sono fuochi d’artificio. Ritorno a Kansas City. “Da quest’anno ci si va anche in aereo, nei mesi estivi. Parte da Linate al tocco e quaranta, arriva a Kansas City dieci minuti alle tre. Il Terminal è davanti al Duomo, davanti al monumento di Canapone [Leopoldo II di Lorena, granduca di Toscana], che sta ancora lì in piedi, vestito da romano antico, a schiacciare col sandalo il serpente, simbolo della malaria”.
Ma allora, che succede di nuovo a Kansas City? “Prendiamo per esempio gli etruschi. La pubblicità, che a dritto o rovescio gli abbiamo fatto un poco tutti, li ha popolarizzati a tal punto che dell’annosa questione, oltre agli entusiasti e agli studiosi, si sono interessati anche i ladri”. Il resoconto prosegue con una graduazione satirica che diventa anche un’analisi economica e sul rapporto città-campagna, compresi i minatori, dei quali Bianciardi aveva parlato nel suo libro d’esordio, scritto insieme a Carlo Cassola.: I minatori della Maremma (1956). “Insomma, Kansas City si è fermata, e pensa ormai quasi soltanto a “valorizzare” la costa; spera negli svizzeri, negli svedesi, negli attori del cinema, nelle mogli dei presidenti. La squadra di calcio, perduto me centromediano per la nota frattura al menisco, arranca in fondo alla classifica. Sempre meno si organizzano dibattiti culturali, circoli del cinema. La distensione è arrivata fin lì: a Karlovy Vari, anziché quelli sovietici, premiano i film di Tognazzi, che fa il verso a me”. In effetti, quanto del tono di questo libro è poi finito nel cinema, per esempio Amarcord di Fellini? Bianciardi sceglie lo stile del saggio storico-sociologico come Woody Allen in Zelig ma anche quando i suoi bersagli sono deformati in caricature, risulta ancora spassoso e amaro.


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Scheda libro Il lavoro culturale

Titolo: Il lavoro culturale

Autore: Luciano Bianciardi

Editore: Feltrinelli

Anno: 2013

Pagine 128


 

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