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Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee: Caproni di fronte al muro della terra

Il Congedo. Un’opera breve di Giorgio Caproni del 1965 (Mondadori), incastonata tra Il seme del piangere (1959) e Il muro della terra (1975), cioè l’opera che inaugura la terza e ultima fase (secondo Pier Vincenzo Mengaldo) del poeta livornese, poi seguiranno Il franco cacciatore (1982), Il conte di Kevenhüller (1986) e postumo Res amissa (1991).

La composizione

Nel 2006, in Ancona, all’interno di un ciclo di incontri dedicati ai poeti contemporanei, avevo proposto una lettura di questo libro. Le letture in tempi diversi a volte non si assomigliano ma a volte sì. Comunque ci provo.
Giorgio Caproni, nato nel 1912 a Livorno, ha vissuto l’adolescenza a Genova; poi si è trasferito a Roma, ha fatto l’insegnante e si è dedicato ai suoi libri e alle sue traduzioni. Traduzioni importanti: Proust, Céline, Genet, Flaubert, Apollinaire, solo per citarne alcune. Muore il 22 gennaio 1990. Nell’edizione dei Meridiani Mondadori (L’opera in versi, 1998) si può consultare una vasta bio-bibliografia dettagliata, ovviamente non completa perché su questo poeta si continua e si continuerà a scrivere. Segnalo come esempio il numero di Istmi: tracce di vita letteraria del 1999, un anno dopo il Meridiano, interamente dedicato a Caproni.

Comincio dalla fine. Nella nota che chiude il Congedo, Caproni dice che lo sente ancora incompiuto, tuttavia avverte altre voci che stanno preparandosi a entrare in scena, per questo ha deciso di licenziarlo così com’è.
Due cose. La prima è che il Congedo assume in questo modo un aspetto incerto, provvisorio, che lo distingue sia dai libri precedenti sia da quelli che seguiranno. La seconda: quelle voci che Caproni avverte, entreranno davvero in scena, proprio in senso teatrale e musicale. Tra l’altro i libri successivi vengono costruiti con un montaggio contrappuntistico e con divertiti prestiti dal lessico operistico e sinfonico, con temi e variazioni.
Il Congedo invece sembra costituito di occasioni e ricordi, in sostanza pare il risultato di una spontaneità non premeditata (che è una tautologia, lo so, non esiste una spontaneità premeditata, sarebbe una contraddizione nei termini). Ma forse esistono delle spontaneità premeditate, nel senso che, come in questo caso, la sequenza dei testi si affida a un intuito che è nello stesso tempo anche il frutto di saggezza ed eleganza compositiva: in qualche modo è sia una genuina sommatoria di testi sia un raffinato bilanciamento di toni.

Nella precedente lettura, dicevo che il libro prende forza proprio dalla sua precarietà, dalle oscillazioni lirico-narrative, dalla novità del parlato inserito in un contesto di allegorie, come avverrà limpidamente nei libri successivi. Ecco, oggi non userei più il termine precarietà, perché pur essendo lievissima, la costruzione si sente, si avverte, se non altro nel contrasto bilanciato tra le quartine e i testi dialoganti o narrativi più lunghi.

 

Giorgio-Caproni-foto-archivio-webLa fotografia è di Paolo Talevi e fa parte della recente scatola-libro (2022) a tiratura limitata dedicata alle osterie fanesi degli anni 70: Vino.

Il Congedo: travestimenti

Nel 2006 poi ho detto una cosa azzardata ma non irriverente. Che l’ultimo Caproni mi sembrava uno straordinario, magistrale inventore di travestimenti. Caproni disegna una scena ed ecco che i significati scivolano via verso altre direzioni o in profondità. Parole e intere poesie sostituiscono e rivelano un desiderio, una pulsione che si traveste in continuazione. Forse perché su una parola convergono pulsioni diverse, a volte tra loro contraddittorie. Lapsus calami che in realtà sono delle rivelazioni (asparizioni, ateologia). Penso poi ai titoli delle sue prime raccolte: Come un’allegoria, Finzioni, ad esempio. Caproni mette in scena le sue emozioni (anche Italo Calvino aveva rimarcato questa affinità più al teatro che alla narrativa) e quel travestimento rivela altri aspetti non detti nel testo, e infine tutto si trasferirà nella lingua (i suoi neologismi, una parentesi che si chiude nella pagina successiva, solitaria nello spazio bianco della pagina, come una parola che non viene ed è sostituita da un simbolo tipografico). Dunque, questa idea la conserverei, oggi. So che dovrei portare delle pezze d’appoggio, come si dice, ma adesso dobbiamo parlare del Congedo, quindi lascio questa idea così, a cuocere nel suo azzardo. Magari evapora. Si fa così con i poeti, si rischia.
“Ognuno ha il suo Montale” ha scritto in un epigramma Caproni.

Cerco di spiegarmi meglio. Caproni è un poeta ricco di sensualità, di immagini, di racconti, di nomi di strade, di fatti concreti, sia legati alla città dove è nato, Livorno (con le poesie dedicate alla madre Anna Picchi, che sembrano scritte da un innamorato) sia ai luoghi dove è vissuto, Genova (l’indimenticabile Litania che chiude Il passaggio d’Enea). Ma ad un certo punto, in particolare nella terza fase, le sue storie, le sue narrazioni, si spostano.
Le parole non dicono solo quello che dicono ma rimandano ad altri contesti, filosofici, musicali, teologici, a-teologici, esistenziali, etici, che emergono dal tessuto poetico: nel Conte di Kevenhüller il tema è la Bestia, il male, per esempio, mentre la Res amissa, la cosa perduta, è il bene, del resto Caproni era un assiduo lettore di Dante e i suoi ultimi libri, dopo il Congedo, si possono considerare come degli aggiornamenti contemporanei della Commedia. Un commedia scarna, la sua, ridotta all’osso, una danza semplice e delicatissima, ironica e crudele, senza concessioni ideologiche.

Figure del congedo

Dal Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Giuseppe Bertolucci ha realizzato un film (sceneggiatura in Ubulibri 1992). Bertolucci parla di un testo in attesa di personaggi. In effetti Caproni ci presenta delle prosopopee, cioè delle personificazioni. Queste personificazioni stanno su una soglia, in un limbo (come precisa il poeta stesso in una lettera all’amico fraterno Carlo Betocchi, parlando di un poemetto dove, dice: “mi piacerebbe descrivere una mia calata nel limbo e un mio incontro con i morti, divenuto loro concittadino e fratello”).
Da ammirare la grande pietas di questo autore. Non accentua i toni. Nulla di infernale (o purgatoriale), solo un luogo-non-luogo, contrassegnato dalla indeterminatezza, nonostante i riferimenti a una stazione ferroviaria, a un ritrovo, un’osteria, ai margini di un bosco. Caproni è giunto a un punto chiave della sua vita, lo vedremo tra poco, quando affermerà di essere giunto “alla disperazione / calma, senza sgomento”. Inventa la figura del congedo e alcuni personificatori di questa pulsione, cosicché il libro pare un piccolo repertorio degli addii, recitati e immaginati in vari modi, e la sua incompiutezza – avvertita come tale da Caproni stesso – non toglie ma aggiunge significati al libro. Less is more sembra lo stemma del nuovo sentiero che si apre. Lui sente che il mondo che ha descritto fino a quel punto della sua vita è finito. Caproni ha superato la sua linea d’ombra. Ha di fronte il “muro della terra” (canto X dell’inferno).

C’è chi dice che Caproni non ha fatto altro che congedarsi, in poesia (Giovanni Raboni). L’ascensore, per esempio, nel Passaggio d’Enea o Stanze della funicolare (nella stessa opera), ma pensiamo anche ai Versi livornesi nel Seme del piangere. La famiglia come sappiamo è al centro dei suoi affetti, tuttavia c’è questo desiderio di scombinare tutti i legami familiari e soprattutto i ruoli, insieme al tempo. Ma solo in poesia. La poesia è il luogo dove tutto viene scombinato e ricombinato. Certo, noi siamo esclusi dall’infanzia dei nostri genitori, questo in una cronologia convenzionale. Invece Caproni può scrivere di Annina (Anna Picchi, sua madre, nei Versi livornesi) come di una fidanzata, e sua fidanzata diventerà in questa “ars combinatoria” la figlia Silvana (in Erba francese del 1978), e poi scambia i ruoli anche con il figlio Attilio Mauro (nel Muro della terra del 1975). Persino la sorella diventa una figlia (in Res amissa del 1991).

Sembrano tanti modi di congedarsi. Si congeda da tutti, Caproni, con il passato e con la sua gioventù, prima di peregrinare alla ricerca di una selvaggina che sembra avere abbandonato il pianeta e che assume forme plurime: Dio, il vuoto, la poesia, il male (la Bestia). Un variegato gioco di specchi e desolate allegorie, dove il linguaggio diventa insieme mappa e compagno di viaggio.
Del resto, nel suo ultimo libro ha detto che il poeta è “figlio di nessuno” e che “ogni rapporto erotico è – per interposta persona – un incesto”. Il corpo è soltanto il luogo dove pullulano nomi e pulsioni, dove le invenzioni sono rivelatrici, mentre le identità si smarriscono.

Questo, per contrasto, è il valore della sua poesia: una forma di letizia paradossale che si situa fuori dalle convenzioni rituali e di linguaggio. La poesia serve a Caproni per rivelarsi a sé stesso, però accorgendosi gradatamente di essere incappato in un gioco di specchi, che lui con divertita disperazione mette in scena. E’ il Caproni che Mengaldo assegna al suo terzo periodo, dove le mappe dei suoi itinerari sono imprevedibili, perché scopre che non solo manca una meta ma conseguentemente anche uno scopo. Allora più che un viaggio o una caccia la sua poesia diventa una erranza, il che significa una ulteriore riduzione, un ritorno a condizioni primitive, tipo quelle dove si accompagna il morto con scherzi e disarmante allegria. Pietro Citati coglie il senso spettrale e ironico del Franco cacciatore in quelle “freddure” che sono le asparizioni. Tutto il mondo poetico di Caproni – ha scritto Geno Pampaloni – si trasferisce presso i confini dell’assoluto. Il linguaggio si adegua, anche considerandosi inadeguato, si fa scarno, epigrafico, attorniato da minacciosi silenzi che sono gli spazi bianchi delle pagine, le parole in quelle rime a gradino come sospese nel vuoto.

Dunque, le prosopopee

Ora torniamo indietro, in quegli anni, tra il 1960 e il 1964, in cui prende forma Il congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee. Cerco di costeggiare questo piccolo e angosciante arcipelago caproniano, per lasciare al lettore una propria indipendenza esplorativa. Mi limito a indicare qualche precauzione, in linea con l’autore stesso che inserisce appunto una sua Prudenza della guida.
Intanto il viaggiatore è cerimonioso, e questo non dipende soltanto da una eccessiva cortesia o filantropia semmai da un suo attaccamento alle forme delle consuetudini sociali. Lo stile del testo asseconda questa impressione ma si avverte il profumo di una pietà ironica. Abbiamo due incipit in quartine, due mesti e delicati preludi alla poesia che introduce la figura del congedo. Un uomo solo, che ha conoscenze più di là che di qua, usa parole semplici nel salutare i compagni di viaggio e si appresta a scendere dal treno (“Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia”). Però poi saluta in modo strano: “Congedo alla sapienza / e congedo all’amore. / Congedo anche alla religione. / Ormai sono a destinazione”. Strana destinazione: “Il luogo del trasferimento / lo ignoro”.
E pure la valigia che cerca di portare sul corridoio è incomprensibile perché “E’ una valigia pesante / anche se non contiene gran che: / tanto ch’io mi domando perché / l’ho recata, e quale / aiuto mi potrà dare / poi, quando l’avrò con me”. Una meta è questa: “io / sono giunto alla disperazione / calma, senza sgomento”. Non c’è altro. Il viaggiatore scende e augura, con una rima alla Palazzeschi, “buon proseguimento”.

Segue una terza quartina, come una voce fuori campo: “Non porterà nemmeno / la lanterna. Là / il buio è così buio / che non c’è l’oscurità”. Siamo immersi dunque in questo ambiente che forse ci è noto. Qualcuno si potrebbe ricordare del cacciatore Gracco di Franz Kafka, che pur essendo morto cacciando nella Foresta Nera, resta al di qua.
Il dialogo che conclude il racconto è terribilmente vicino al limbo di Giorgio Caproni: “Da allora sono morto (dice il cacciatore). – Lei vive anche, però. – In un certo senso sì, la mia barca funebre ha sbagliato rotta, da allora solca acque terrene. – E non partecipa all’aldilà? – Sto sempre sulla scala che vi sale. Mi aggiro su questo scalone infinitamente ampio, ora in alto, ora in basso, ma quando prendo slancio e vedo brillare la porta lassù, mi sveglio nella mia vecchia barca desolata…”

Prudenza della guida è il titolo della poesia successiva. Una poesia che assume la sua forza dal contesto che ormai ha preso forma. E proprio nel punto in cui è inserita. Un attimo di quiete mentre incombono orizzonti foschi eppure non ancora intuibili. “Che ne sappiamo, / noi tutti, di quel che ci aspetta / di là, passata la cresta? // Ci sono mormorii / diversi. Voci. Brusii. / Non altro…”.
Segue un fotogramma, di nuovo una quartina, Il bicchiere, e subito dopo, appena accostato il bicchiere alle labbra, si ode un fischio, e questa volta parla il guardacaccia, introdotto da un esergo, due versi di Eschilo: un acuto terrore punse la mia anima. Siamo ai margini di una foresta, il guardacaccia ha udito il fischio e vuole uscire per andare a vedere. I compagni temono per lui, ma lui uscirà. Se il nostro peggior nemico è la morte, è vano restarsene in casa, dice Caproni. E sembra un preludio del Franco cacciatore. C’è solo un fischio che risuona fuori, ai margini del bosco, e non può essere quello di un bracconiere perché c’è troppa nebbia. Ricorrono spesso questi richiami da un luogo indefinito perché indefinibile, se non appunto attraverso allegorie. Senza le allegorie non avremmo parole per indicarlo. Non solo. Il fischio è un richiamo tetro, che proviene da un altrove, ma è anche una specie di nuovo incipit, del tipo Call me Ishmael. Chiamatemi Ismaele. E da lì poi comincia la caccia a Moby Dick, altra bestia terribilmente allegorica.

Noi oggi possiamo leggere il Congedo come una selva di premonizioni del Caproni della terza fase, e quindi vederla accennata e come in nuce, nascente, appena sbozzata in questi spezzoni lirico-narrativi, in queste confessioni cortesi e tormentate, eppure allora non era immaginabile che questo lavorio attraverso personificazioni fosse in realtà una sorta di rendiconto finale o di rito di passaggio, compreso il Lamento (o boria) del preticello deriso. Una poesia dedicata a sé stesso, con un prestito da Céline. “Che mai volete / da me – da questa mia / miseria senza teologia? / So che anche voi non credete / a Dio. Nemmeno io. / Per questo mi son fatto prete”.
Qui appare personificata la sua “ateologia”, che lo ispirerà fino a Res amissa. Ma anche la sua insopportazione della società del carrierismo e degli elettrodomestici. Preferisce una ricerca piena di incertezze ma non intellettuale: “D’altro non mi chiedete. / Sono un semplice prete”.

Fin qui le prosopopee: un viaggiatore, un guardacaccia, un prete. Figure casuali? Kafka ad esempio sceglie un agrimensore, che anche lui giunge in una gelida sera d’inverno e cercherà di trovare la strada verso il castello. Tuttavia c’è una differenza, perché in Kafka la realtà quotidiana mostra inquietanti risvolti metafisici, Caproni invece sembra andare proprio alla ricerca della metafisica, ma non la trova. Trova un intricato gioco di specchi. “Pensatina dell’antimetafisicante: Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. / Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa” (Il conte di Kevenhüller).

I ricordi

Torniamo al Congedo, perché dopo il lamento del praticello deriso improvvisamente il libro si anima e appaiono tanti personaggi dell’infanzia del poeta. Lo Scalo dei fiorentini, una spalletta sui fossi (che sono i canali artificiali che attraversano Livorno, presso la grande piazza chiamata il Voltone) si popola di presenze vive … però “I nomi / li ha con sé il vento”. Qui il lessico e il tono sono proprio quelli di Céline, che in quel periodo Caproni traduceva (Morte a credito) e la novità è l’irruzione di così tanto parlato senza filtro letterario in poesia, sebbene virgolettato. Al quale segue, senza alcuna percezione di un cambio di lingua: “Scostai la sedia. M’alzai: / Schiacciai nel portacenere / la sigaretta, e solo / (nemmeno salutai) / uscii all’aperto”.

Vino-Paolo-Talevi-webE inaspettatamente ritroviamo un personaggio intravisto fugacemente, cioè colui che ha appena ricordato qualche frammento della sua infanzia è la stessa persona che compare ad inizio del libro “In una notte d’un gelido 17 dicembre”. Dunque che cosa fa? Esce perché non ama i ricordi. “E so che il vino / aizza la memoria, e che… quei tre / avrebbero fino all’alba / (all’alba che di via Palestro / fa un erebo) senza un perché / continuato a evocare / anime…”. Quei tre. I ricordi, il vino, la memoria. Tutto tiene, insomma. Caproni si aggira nell’erebo come se fosse appena uscito da una delle sue latterie all’alba, immerse in una fredda luce grigia (foto di Paolo Talevi dalla raccolta “Vino”)

Ora gli restano pochi ricordi ancora da congedare. Uno è Il gibbone, l’altro è Toba, il primo si trova allo zoo, vicino casa sua, a Genova, il secondo è il suo nemico di ferocissime sassaiole, ora fiaschettiere. Un lieve e straziante addio all’infanzia: “C’è ancora tutto l’inverno / (il brivido: il caldo) / del mio infantile inferno”.
Ma l’altra, Il gibbone, per me è una delle sue poesie più belle. Una poesia breve, che aggiungo alla fine di questi pensieri. Nel gibbone allo zoo Caproni vede sé stesso emigrante a Roma, o una estraneità più radicale, cioè sradicata. Lontana, la città verticale, scintillante, Genova della sua adolescenza. Poi il libro si chiude con due immagini che ci riportano alla stazione e alla ferrovia, anche se il ricordo va alle sue prime prove da insegnante a Rovegno, in Val Trebbia: “il tempo era di prima / che avessi conosciuto Rina”. Attenzione infine alla chiusa. Una specie di lampo, un ultimo sguardo sensuale, infatti la chiusura è affidata al volatile odore di vesti femminili, poi tutto si dilegua: “Colpito in pieno dal vento / fondo del tuo vestiario, / oh il ciclista che a stento / ha attraversato il binario”.

Non è un libro sorprendente? Quel bilanciarsi miracoloso della sua provvisorietà, di un senso di incompiutezza e transitorietà, insieme a un rigoroso e apparentemente casuale montaggio? Quell’effetto di non-finito che per Vincenzo Mengaldo è dovuto al contrasto tra l’uso dei versi medi o brevi rimati fittamente e la lunghezza dei testi, si potrebbe intuire anche da una parola che sta vicina al luogo della sua germinazione, che cresce per contrappunti e va in cerca di una melodia, o di una voce vera su un palcoscenico a teatro vuoto. Caproni, anche nelle rarefatte altezze della sua “ateologia” rimane un poeta che ogni lettore non può non sentire fraterno.

Il gibbone

No, non è questo il mio
paese. Qua
– fra tanta gente che viene,
tanta gente che va –
io sono lontano e solo
(straniero) come
l’angelo in chiesa dove
non c’è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone

Nell’ossa ho un’altra città
che mi strugge. E’ là.
L’ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi – un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
mai – mi ricondurrà.


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Scheda libro

Autore: Giorgio Caproni

Titolo: Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee in ‘L’opera in versi’

Editore: Mondadori, Milano 2005

Prima edizione: Garzanti, Milano 1965

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Un commento

  1. Bella lettura ma soprattutto Bella scrittura!
    sono rimasto piacevolmente coinvolto in questa precisa ed emozionante descrizione che Marco Ferri ci
    narra sulle varie fasi tematiche della poesia di Giorgio Caproni che a dire il vero non conoscevo in maniera
    cosi chiara e approfondita
    con questo bel racconto e analisi di articolata costruzione poetica -letteraria, si giunge incuriositi e ben
    motivati a proseguire la lettura con attenzione e partecipazione entrando in quelle suggestive atmosfere
    evanescenti dove tutto il nostro tempo prende altre direzioni e le parole altri significati.

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