Cees Nooteboom

Cees Nooteboom. Cerchi infiniti e 533. Il libro dei giorni, un viaggio dal Giappone alla Spagna

Cerchi infiniti (Iperborea, 2020) è una raccolta di testi su quarant’anni di viaggi, alla scoperta di mostre d’arte, presentazioni librarie e letture di autori giapponesi. In 533. Il libro dei giorni (Iperborea, 2019), troviamo riflessioni e pensieri raccolti dall’autore durante la sua permanenza a Minorca, l’isola-rifugio dove abita durante i mesi estivi. Di Cees Nooteboom (L’Aia, 1933), autore di romanzi, poesie, saggi e libri di viaggio.

L’occasione

Quest’anno, il 31 luglio, Cees Nooteboom compirà novant’anni. Ha scritto tanti libri di ogni genere ma per un lettore che lo ha seguito nel tempo, forse ha scritto troppo poco. Si cerca sempre dell’altro spulciando nella sua bibliografia. Ogni libro è unico sebbene coerente all’insieme, come se facesse parte di un arcipelago dove si parla la stessa lingua (“una manciata di isole buttate come un gambero disperato” ha scritto parlando del suo Giappone: lo stesso si potrebbe dire della sua opera). Un aspetto costante della sua ricerca, cioè tutte le declinazioni – reali e metaforiche – del viaggio, anche quando – raramente – non viaggia, è appunto il dialogo profondo tra la parola e il mondo, come fa la poesia, e questo è un po’ il cuore pulsante della sua scrittura, qualsiasi forma assuma, si tratti di invenzioni o diari, racconti, romanzi, saggi, poesia, drammi. L’autore olandese, molto legato alla sua lingua, è il classico cittadino della Terra, perché sembra che l’abbia visitata tutta, a volte nei giorni in cui vi accadevano gli eventi: la rivolta ungherese, il maggio francese, il muro di Berlino, solo per citarne qualcuno. Dunque, quest’anno compirà novant’anni ma credo che continuerà a smentire Edward O. Said e il suo libro sullo stile tardo (Il Saggiatore 2009), perché quello di Cees Nooteboom non è mai cambiato, è rimasto sincero, ironico, disincantato, pronto ad accogliere anche le irruzioni dell’inconscio e registrarle nel suo notes sommamente inclusivo: un Montaigne contemporaneo che ha il suo buen retiro nell’isola di Minorca. Alberto Manguel lo paragona a Diderot, altri rilevano l’apparente vicinanza a Bruce Chatwin, ma lui si considera intimamente un poeta, e lo conferma il fascino ibrido delle sue prose: la poesia scorre sotto, come un fiume carsico, e ogni tanto, limpidamente, affiora. Non è possibile riassumere una biografia così ricca in una recensione, né una bibliografia, che non mostra pause ma solo opere necessarie, nello spazio di queste note. Pertanto proporrei due opere: Cerchi infiniti e 533. Il libro dei giorni, entrambe pubblicate da Iperborea rispettivamente nel 2020 e nel 2019 (gli originali nel 2015 e nel 2016, le date però ingannano perché Cerchi infiniti è composto da una scelta dei suoi scritti migliori sul Giappone, in quarant’anni di viaggi). Vista la sua passione per la cultura e i paesaggi del Sol Levante, comincerei dal primo. Il lettore ha tanti modi per approfondire la biografia di un autore come Cees Nooteboom.

Cees Nooteboom. Cerchi infiniti

L’introduzione è affidata a uno scritto del 1977. La guida di sé stesso e dei lettori è lui, e qualche frammento è come assaporare un vino: “Da qualche parte nel quartiere di Ginza vedo una donna intenta a leggere la mano a un uomo con l’aiuto di una piccolissima torcia tascabile a forma di freccia. Scendo lì, prendo un caffè all’Almond bar dove tutto è di un colore viola Quaresima. A breve c’è un hotel che ha una grande sauna. Poco dopo siedo tra cinque altri uomini nudi… Più pulito di quanto non sia mai stato, mi alzo ed entro nella sauna. E’ intrigante scoprire quanto a lungo si lavino i giapponesi. Anch’io seguo l’intero rituale, incluso il massaggio. Da lontano ho visto come altre ragazze, tenendosi con le mani a una sbarra fissata al soffitto, si muovevano in punta di piedi sulla spina dorsale dell’uomo disteso sotto”. Nooteboom racconta con disarmante precisione tutte le sensazioni, compresa la sua impreparazione, così magari ci sfugge che potrebbe anche inventare, l’illusione di essere lì per noi è così forte che potrebbe narrarci qualsiasi cosa. A volte lo fa, l’ha confessato. Ma fa parte della narrativa, e anche della poesia.

“Sulla destra del tempio c’è un Buddha, gli occhi di legno diretti verso un punto in terra che nessuno può vedere… una vecchina accende un bastoncino d’incenso in un vaso in cui ne ardono lentamente altri. Si sofferma un istante, poi si allontana con passetti strascicati, un momento da nulla in una piazzetta da nulla, ma mai dimenticato”. Sembra uno sguardo “da fuori”. La donna anziana riceve più attenzioni del Buddha, è il punctum di Roland Barthes (La camera chiara, Einaudi 2003), che Nooteboom ha definito, parlando di Leopardi, come “una sorta di dolore ardente e compresso fino all’inverosimile”. Non è che l’autore olandese preferisca evitare il confronto con la civiltà giapponese, anzi è l’opposto. Le sue emozioni si sentono come spaesate e in cerca di guide e le sue guide vere saranno proprio i grandi autori come Kawabata, Mishima, Tanizaki, ma soprattutto Sei Shōnagon (Note del guanciale, SE 2017) e fondamentale Storia di Genji di Murasaki Shikibu (in italiano con uno splendido saggio di Maria Teresa Orsi, Einaudi 2015). Ne sarà talmente affascinato da paragonare la scrittrice medievale a Proust e quel mondo ispirerà altri suoi libri (Mokusei, Iperborea 1994) e numerosi viaggi: per due volte, ad esempio, il giro dei templi (Saigoku. Il pellegrinaggio giapponese dei 33 templi, Iperborea 2022).

“Piove nel bosco di Nara. Mi sono allontanato dal complesso di un tempio senza una meta, solo, le gocce ticchettano sul mio ombrello ed è molto piacevole… sotto gli alti cedri immobili qualche cervo si ripara dalla pioggia. A un tratto dopo una curva del sentiero compare una piccola pagoda. Il recinto è dipinto di rosso chiaro. Ci sono alcuni leoncini scolpiti, un paio di lanterne di pietra, la pioggia scorre sul tetto lievemente inclinato e gocciola con note acute in un pozzo di pietra. Nient’altro. Non ho bisogno di tirare fuori la mia guida, non ho bisogno di nulla e vado a sedermi sotto una tettoia, ascolto la pioggia”. Una prosa che vaga come l’autore in cerca del punctum. E il libro si conclude con il saggio che costituisce la postfazione all’edizione olandese della Storia di Genji tradotta da Jos Vos. “Quando dico agli amici giapponesi che ho letto la Storia di Genji, ridono increduli, e non c’è da stupirsi perché loro stessi ormai da tempo non sono più in grado di leggere il giapponese di Murasaki”. Mille anni dopo non è facile. Ci sono parole (e anche parti di parole) che possono avere più significati. Tuttavia “Ho passato molte sere sulle sponde del Kamo, ho scrutato il monte sacro Hiei attraverso le brume del mattino, e mi è tornato in mente il libro”. Questa scrittura sfugge a ogni definizione. Ma intenzionalmente. L’arte di Cees Nooteboom è onnivora.

533

“Come si fa a descrivere un oggetto che è verde, ha perduto la sua euclidea forma conica a causa di una quantità di tacche profonde e semplicemente se ne sta lì attaccato a terra, pericoloso e possente, cercando di dimostrare sa il cielo cosa con quegli aculei che gli crescono dappertutto e che in punta sono di un profondo rosso cremisi?”. Cees Nooteboom cerca di descrivere un cactus. Dopo averli visti nel deserto di Atacama, nel nord del Cile, aveva deciso di piantarli nel suo giardino nell’isola di Minorca. Il faut cultiver notre jardin, annota ironicamente. Ma subito dopo: “E se fosse il contrario? Io non sono una pianta, ma se fosse il giardino a coltivare me?”. Splendido, perché non è una battuta o un’intuizione arguta, è l’inizio di un altro viaggio, direzione ovunque. Del resto il suo giardino è anche la letteratura, le parole allungano le loro radici, colonizzano ogni territorio limitrofo. La sua biblioteca fa parte del giardino. Così gli pare curioso che Borges possa starsene muto di fianco a Gombrowitz nonostante il suo disprezzo terreno per l’autore polacco. Swift sta seduto nascosto, come un suggeritore, con la sua Battaglia dei libri. Ma queste note vengono interrotte improvvisamente da un appunto: “Oggi i primi fichi, più numerosi dell’anno scorso. E qualche grappolo d’uva sulla pianta antichissima che cresce solitaria, appoggiata a un muro davanti alla casa. Gli acini sono verde chiaro, lucidi. Lì di fronte abitava un tempo un vecchio contadino, nodoso come il tronco della vite, il suo corpo altrettanto contorto, piegato dal duro lavoro. Questo era più di quarant’anni fa, deve essere morto ormai da un pezzo. Sua figlia si sposò e lui mi vendette, prima di partire, un pezzetto di terra su cui non si sarebbe mai potuto costruire niente. Il limone che c’era lì è morto di vecchiaia, ma il fico cresce ancora di anno in anno. Non c’è bisogno di annaffiarlo, sopporta bene le mie lunghe assenze e sa badare a sé stesso. E se trova che io stia via per troppo tempo, lascia cadere a terra i suoi frutti. Allora come se la ridono i colombi che fanno il nido sui pini. Solo che i colombi non sanno ridere”. Sentire il dovere di presentare una scrittura come questa è un compito tremendamente impegnativo.

Che cosa si può dire della descrizione di un temporale dove ci finiscono, in crescendo, una stanza immersa nella notte, le tendine strappate, Gruppen di Stockhausen, un asino, i colombi sul pino, Heidegger, i rami delle palme, la yucca, i fiori azzurri del plumbago, e perfino un nido di piccoli topi? E poi verrebbe spontanea una domanda: e la trama? Cees Nooteboom queste domande se le è già fatte. Anzi, le include nel testo. Lo sa come funzionano le cose, oggi. “In un mondo letterario che esige delle storie, questo è naturalmente un punto di partenza impossibile”. Potrei aggiungere: immagina chi ne deve parlare, perché sembra di dover commentare un commento. Il commento di Cees Nooteboom riguarda i vari aspetti della vita, piacevoli o disperati, piccoli o grandi, e riguarda anche altri commenti, riguarda il suo giardino ma anche l’Olanda, le varie lingue dei libri, e infine la sua è una scrittura in continuo commento di sé stessa, spesso con autoironia. Si resta tuttavia impigliati o incantati dentro questo edificio fragile, sensibilissimo, colto e popolare, non illusionistico, nonostante ad ogni pagina si aprano improvvisamente porte non viste: ottanta imprevedibili piccoli mondi racchiusi in 533 giorni, che qualcuno, con indifferenza sacrilega, potrebbe rubricare come diario, ma se avesse un minimo di coscienza sentirebbe tutta l’inadeguatezza del vocabolo e si vergognerebbe subito della propria ovvietà, poiché quel termine, qui, non significa più niente. Chi usa per termine dovrebbe accomodarsi nella stanza buia mentre viene proiettato tutto il film del libro, e quando le luci si accenderanno, ci sarà qualcuno a chiedere semplicemente: diario? No, dobbiamo inventarci un altro vocabolo. La grande letteratura è molto esigente con il vocabolario oppure il vocabolario, con le sue centinaia di migliaia di vocaboli, è incompleto. Forse si potrebbe usare il termine giapponese monogatari (raccontare cose), con l’avvertenza però che il punctum è imprescindibile, e non sta nel racconto, ci scorre sotto. Lui dice che è poesia, e verrebbe in mente quel titolo di Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa (Bollati Boringhieri 1994): “Una poesia incapace di dialogare con la prosa e con la lingua comune perde inventività e vigore, anzi finisce per smarrire sé stessa”. la prosa di Cees Nooteboom non è mai isolata dai problemi di una contemporaneità caotica che, all’opposto dello scrittore olandese, sembra viaggiare senza vedere, e consumare senza capire.

Non c’è bisogno di allontanarsi migliaia di chilometri per vedere in profondità. Così è possibile che questa volta Cees Nooteboom abbia scritto un libro con epicentro la sua casa con giardino nella piccola isola spagnola: il libro dei giorni contiene infatti tutte le variazioni del vocabolo viaggiare, e allontanarsi è in realtà un avvicinarsi a qualcosa. Le annotazioni naturalistiche si alternano alle meditazioni, alle discussioni letterarie, alle memorie, ai sogni, ad altre affascinanti e inquietanti presenze: i suoi libri. “Quando torno, e non ho ancora tolto i libri nuovi dalle valigie, vedo quelli dell’anno passato e, a volte, sono disposti in modo da ricordarmi per cosa volevo usarli”. Lo Zibaldone di Leopardi, Kafka, Gombrowicz, il diario di Max Frisch, il saggio di Borges Il pudore della storia, hanno tutti un’infinita pazienza, e lo osservano. Ma lui è attratto da vicende alle quali in genere non si fa caso. “La tartaruga aveva cominciato a mangiare gli acini da sotto. Qui tutti mangiano tutti e tutto, ma quell’uva era mia. Di colpo sono diventato anch’io parte dei tutti e del tutto. Ho visto che aveva ragione: l’uva era matura, dovevo coglierla”.

 


Scrittore olandese, autore di romanzi, poesie, saggi, opere teatrali e resoconti di viaggio, come Verso Santiago e Il Buddha dietro lo steccato (Feltrinelli), è ormai ritenuto uno dei più importanti e originali autori europei contemporanei. Rivelatosi a ventidue anni con Philip e gli altri, ha raggiunto il successo internazionale con Rituali e Il canto dell’essere e dell’apparire. Iperborea ha pubblicato anche i romanzi: Mokusei (1994), Le montagne dei Paesi Bassi (1996), La storia seguente (2000, Premio Aristeion della Comunità Europea e Premio Grinzane Cavour 1994 ), Il giorno dei morti (2001), Perduto il paradiso (2006), Le volpi vengono di notte (2010), Avevo mille vite e ne ho preso una sola (2011), Lettere a Poseidon (2013), Saigoku. Il pellegrinaggio giapponese dei 33 templi (2022).

A Nooteboom è stato attribuito il Premio Europeo di Poesia 2004, ed è stato insignito del più alto riconoscimento olandese per la letteratura. Nel 2017 viene scelto come vincitore del Premio Letterario Internazionale Mondello, sezione Autore Straniero. Questa la motivazione del giudice del Premio Ernesto Ferrero: «Olandese e cittadino del mondo, viaggiatore incantato che cerca l’uomo e se stesso nell’altrove, reporter che sa trovarsi sui luoghi dei grandi drammi storici, poeta capace di dar vita a ciò che non è visibile, narratore che usa l’immaginazione come strumento principe per cogliere la melodia che si nasconde nel rumore confuso della quotidianità, da decenni Cees Nooteboom incarna magistralmente le ragioni di una scrittura capace di esplorare gli incerti confini che uniscono, più che dividere, realtà e finzione. Nel solco della grande letteratura che va da Cervantes a Pessoa, da Borges a Calvino, Cees Nooteboom cerca con sognante eleganza e ironica leggerezza la saldatura tra l’essere e l’apparire, tra spazio, tempo e linguaggio, tra parola e immagine, simbolo e mito, arte e vita. Appassionato, empatico esploratore di culture, Nooteboom usa la forza rivelatrice dell’invenzione per smascherare le mistificazioni delle ideologie, dei sistemi totalitari, della virtualità dominante. Con lui la libertà della poesia diventa, ancora una volta, rivelazione dei tesori nascosti nelle fragilità dell’umano».
È definito dal New York Times “una delle voci più alte nel coro degli autori contemporanei”. I suoi libri sono tradotti in più di trenta lingue e ha ottenuto più di una candidatura al Premio Nobel. Nel 2018 è stato insignito del Premio Internazionale Elena Violani Landi.

 


cees nooteboom

Scheda libro
Autore: Cees Nooteboom
Traduttore: Laura Pignatti
Editore: Iperborea
Prima Edizione: 2017

 

 

 

 

 

cees nooteboomScheda libro
Autore: Cees Nooteboom
Traduttore: Fulvio Ferrari
Editore: Iperborea
Prima Edizione: 2019

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