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‘L’acqua del lago non è mai dolce’ di Giulia Caminito: il peso del riscatto sociale

Il racconto della crescita di una bambina che diventa ragazza e poi giovane donna, grazie alla famiglia, alla tenacia della madre, a Roma, ad Anguillara e ai luoghi lacustri, grazie alle lotte contro che non sa come non ingaggiare.
Il racconto della crescita di una bambina che diventa ragazza e poi giovane donna, nonostante la famiglia, la tenacia della madre, Roma, Anguillara e i luoghi lacustri, nonostante le lotte che non sa come non ingaggiare
L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani) è un susseguirsi di spigoli e di corazze, di sofferenze evitabili, di anafore amare, proposizioni semplici, alle quali la scrittrice, Giulia Caminito, dà la forma e la voce della storia di una ragazza e del suo contesto familiare disagiato: tre fratelli, figlia di una madre battagliera e ostinata a conquistare il loro ruolo nella società, un padre paralitico e marginale, una casa popolare ad Anguillara.
Si tratta di un romanzo sul rapporto madre-figlia, sul riscatto sociale e sul concretismo, che ad ogni pagina ci chiede: quale sentimento stiamo sacrificando, quale emozione stiamo affondando?

La rabbia che tutto muove

Ne L’acqua del lago non è mai dolce ad arrivare in maniera inclemente non è però tanto la trama quanto la percezione della protagonista che racconta in prima persona, i suoi tumulti, la maniera disfunzionale in cui sistema gli insegnamenti della madre nel tentativo di emancipazione e come, in nome di questa emancipazione, sia disposta a tutto. “Alzo in aria la racchetta dal manico, la afferro con tutte e due le mani e gliela do sul ginocchio, una volta, due volte, tre volte, cinque volte, alla settima lui cade per terra e urla”, descrive così la sua prima vera reazione ad un torto, la sua iniziazione alla difesa, da autodidatta.
Il concetto di ingiustizia sociale tanto difeso da Antonia, la madre, si fa via via rarefatto, passando da coscienza collettiva a strabordante individualismo.

Per le prime 180 pagine di L’acqua del lago non è mai dolce non conosciamo il nome della ragazza, e personalmente nemmeno me lo sono chiesto, un’informazione superflua quella identitaria, perché comunque si chiami, Gaia è contenitore di un unico sentimento: la rabbia.
Non si commuove, non si intenerisce, non compatisce, non si emoziona, non tentenna. Gli approcci di Gaia alle relazioni, all’amore, al sesso, è travagliato, fatto di tradimenti e disillusioni all’inizio, ma presto si trasforma da vittima a carnefice, mettendo in atto storie di disamore.

Sa fare molto bene una cosa Gaia: prendere la mira, sparare, colpire e affondare. Ad eccezione del rapporto con le sue amiche, verso le quali prova sensazioni di tenerezza e protezione che non asseconda, ma che non riesce a silenziare. “Avrei trovato i soldi per dieci, venti cavalli, e ti avrei aperto un maneggio solo tuo…invece ti avevo solo detto: i cavalli di solito stanno all’aria aperta, non penso starà male” dice alla sua amica Iris raccontandole un mancato atto di consolazione. Il lasciarsi andare è sinonimo di resa, l’empatia di pietismo, le sfumature sono inafferrabili nella sua grammatica emozionale.

Il diritto alla casa, non al lamento

“Di quella casa, larga cinque e lunga quattro metri, io ho a cuore la spianata di cemento e le aiuole, dentro c’è solo erba, nessuno ha mai pensato di metterci dei fiori e mia madre anche s’è rifiutata perché piantare vuole dire rimanere” introduce così la protagonista la lotta per una casa dignitosa condotta unicamente dalla madre.

Si spostano dalla periferia di Roma ad un quartiere altolocato della città, per poi grazie all’inventiva della donna, in una casa più grande ad Anguillara. L’elemento costante di queste pagine dure è, oltre alla volitività, il rapporto tra la protagonista e suo fratello più grande Mariano, il macigno che soltanto loro due conoscono, e che li porterà a trasformare le rivendicazioni della madre verso la dirigente inadempiente del Comune, in senso di inadeguatezza. La quasi assenza di proposizioni subordinate come una marcia costante verso un perenne progredire, senza mai distrarsi, perché il mugugno non ha mai portato lontano nessuno.

Ogni cosa serve ad un’altra cosa

Antonia, la madre di Gaia, non ha potuto studiare, fa lavori umili, mal pagati e poco tutelati, è pronta a tutto pur di non far ripetere i suoi fallimenti ai figli. Impone un regime di frugalità ed efficienza, sobrietà, e funzionalità, dotata di straordinarie capacità volitive che sfociano in una forma di concretismo, difficile da maneggiare per una ragazzina. Per lei non c’è alcuno spazio per astrazione e orizzonte di senso, ogni cosa serve ad un’altra cosa che a sua volta porterà ad un’altra cosa ancora.

La differenza tra Antonia e Gaia però è netta, la prima sa costruire, la seconda stritola e distrugge. Nessuna delle due conosce la delicatezza, ma non è sufficiente a produrre gli stessi risultati. La madre regge pesi e legifera, la figlia si fa mezzo per la realizzazione.
Leggiamo Antonia (quasi) emozionata però quando riesce a procurare a sua figlia un vocabolario usato, che lei sfoglia, del quale pronuncia parole a caso, ne approfondisce il significato: “La gioia di mia madre mi si appiccica addosso, dopo mesi di viso scuro e parole mozze, allora guardo dove lei ha puntato il dito e ripeto melologo, a voce alta dico tutta la definizione”, sugellando la consegna del peso enorme del proprio riscatto sociale nelle mani di Gaia.

L’acqua del lago non è mai dolce è un romanzo di distorcimento, molto di più di quanto ho scritto in questa analisi, una prosa aspra e serrata che non somiglia ad altre, ma che, come la protagonista, ricerca strenuamente la propria unicità.


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Titolo
: L’acqua del lago non è mai dolce

Autore
: Giulia Caminito

Prima Edizione
: 13 gennaio 2021

Editore
: Bompiani

Anno
: 2021


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