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Accabadora di Michela Murgia, il rito della morte e del lutto in una Sardegna affascinante e indomata

Premio Campiello Letteratura 2010, Accabadora è il romanzo di grande successo di Michela Murgia; pubblicato da Einaudi, negli anni ha venduto centinaia di migliaia di copie.

“Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai” (p.3).

Tradotto in più lingue è stato apprezzato in tutto il mondo.

Accabadora: la storia

Il libro è fondato sul rapporto tra Tzia Bonaria Urrai, l’accabadora, e Maria Listru, fill’e anima, sua figlia adottiva. Ci troviamo nei primi anni cinquanta del XX secolo a Soreni, un paesino della Sardegna. Bonaria svolge il mestiere della sarta, e, in seguito alla mancata maternità, prende in affido una bambina, facendole da seconda madre. Maria è la quarta figlia, l’errore dopo tre cose giuste, l’ultima nata. Quando Bonaria Urrai chiede alla madre che gliela affidi, la piccola ha solo sei anni; la crescerà assicurandole un futuro, insegnandole un mestiere, garantendole lo studio. Bonaria sapeva bene a che famiglia toglieva la bambina, una famiglia che mai non avrebbe opposto resistenza.

Maria “sorridendo intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci un motivo per piangere ma non riuscì a farselo venire in mente. Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo […] Per anni ricordò invece il cielo caldo e i piedi di Tzia Bonaria nei sandali” (pp.3-4).
Nei tredici anni vissuti con lei, “nemmeno una volta Maria la chiamò mamma”, e non si era accorta che Bonaria era l’accabadora, colei che pone fine a chi negli occhi aveva “l’immobilità senza ritorno delle cose rotte”. Aveva pensato che la sua seconda madre fosse solo una sarta; non riusciva a capire le occhiate strane dei paesani e le inspiegabili uscite serali coincidenti il giorno seguente con una visita alle case di chi nella notte era mancato.
Vissero così per tredici anni, “fino a quando con l’ombra netta di una intuizione Maria Listru seppe con certezza che su madre Bonaria Urrai era morta” (p.161).

Fillus de anima

Il tema del “fillus de anima” è di fondamentale importanza per Michela Murgia. Questa espressione, che nella lingua sarda significa ‘figlio dell’anima’, si riferisce ad una pratica diffusa in varie zone dell’isola che prevede, da parte dei genitori biologici, l’affidamento volontario di un figlio ad altri adulti, solitamente componenti della stessa comunità. Tutti devono essere d’accordo, compreso il bambino. I legami di sangue non vengono recisi; si può così parlare di co-genitorialità, tipica delle piccole comunità rurali, dove fortemente sentita era la solidarietà. Comprendiamo sin dalle prime pagine del romanzo che alla stessa persona la vita può essere data più di una volta: non è necessario l’atto procreativo.

Chi è l’accabadora: l’ultima madre

Come suggerisce la quarta di copertina, l’accabadora letteralmente significa “colei che finisce”, e deriva dal sardo s’acabbu (la fine) o dallo spagnolo acabar (terminare). “Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. Perché lei era l’ultima madre”.
Era una donna chiamata dai familiari di un malato terminale, non pagata, perché le sue azioni erano considerate sconvenienti dal punto di vista morale. L’accabadora, vestita di nero e con il viso coperto, di notte, si recava nella casa del moribondo che vedendola entrare comprendeva che le sue sofferenze erano alla fine. Andava via con lo stesso silenzio con cui era apparsa, e i familiari provavano per lei una profonda gratitudine. Bonaria Urrai pone fine alla vita di chi le chiede di fare questo, alleviando la sofferenza a quanti le chiedono l’eutanasia.
Michela Murgia pone il problema della cura al centro dell’attenzione: l’assassinio non ci appare nella sua crudeltà ma come un’azione compassionevole volta a quietare la sofferenza di un’esistenza giunta ai limiti estremi di sopportazione della sofferenza.

L’attitadora

Appariva durante la veglia funebre, cadenzando con la voce un rituale antichissimo e suggestivo. La prefica, nota in tutto il bacino del Mediterraneo, era un elemento indispensabile in presenza della morte.

Ogni volta che si levava quel lamento dalla musicalità sguaiata, era come se ai sorenesi venissero cantati i dolori di ogni casa, quelli presenti e quelli andati, perché il lutto di una famiglia risvegliava la memoria mai sopita di tutti i singoli pianti passati. Allora le ante delle finestre del vicinato venivano accostate, rendendo ciechi al sole gli occhi delle case, e ciascuno accorreva a piangere i propri morti nel morto presente, per interposta assenza” (p.14).

Il canto cupo dell’attittadora risuona e accompagna la morte. La donna, seduta in cerchio insieme ad altre donne vicino al defunto, intonava una sorta di pianto cantilenato, “una nota dolente che pareva sorgesse dal basso delle ginocchia flesse a terra” (p.15). A centinaia di metri di distanza era possibile sentire il canto cupo dell’attittu che man mano si faceva sempre più inconsolabile.

La vita

Durante l’esistenza di ogni individuo niente avviene per caso, né la nascita né la morte. “Non mi si è mai aperto il ventre” (p.117), dirà amaramente Bonaria, eppure riesce a prendersi Maria come figlia, riesce ad essere madre e a prendere il posto della madre naturale. E così quando la maestra Luciana dirà alla piccola di fare un disegno dei suoi genitori, Maria disegna lei, e non la vera madre. […] Bonaria aveva un’ultima domanda.

“- Volevo chiederle, a proposito dei disegni che fa Maria… cosa intende esattamente quando dice che dovrebbe disegnare la vera madre?
La maestra rimase interdetta […].
– Non mi fraintenda, mi riferivo alla madre naturale, non volevo certo svilire il vostro rapporto…
-La madre naturale, per Maria, è quella che lei disegna quando le chiedono di disegnare sua madre”. (p.22)

Prendere in affido un essere umano significa ri-dargli la vita. Parlando con Bonaria, Maria dirà che loro due “sono mamma e figlia, ma non proprio una famiglia […] io credo voi siete la mia famiglia. Perché noi siamo più vicine” (p.25).

All’immagine della madre naturale subentra quella della madre adottiva, la madre che cresce il bambino. Il legame con la madre diventa pieno e incondizionato soltanto con la morte e alla domanda di Maria:
“- Cosa volete dirmi, Tzia… che io diventerò veramente vostra figlia solo quando sarò morta?” […] Bonaria risponde:
– Sciocca che sei, Mariedda Listru! Tu sei diventata mia figlia nel momento stesso in cui ti ho visto, e non sapevi nemmeno chi ero”. (p. 25).

La morte

L’Accabadora pratica la morte bella, la “buona morte”, e questo argomento viene esplicitato quando a Nicola Bastíu, feritosi in un incidente, gli viene amputata la gamba. Il ragazzo sprofonda nella più nera depressione, non si intravedono spiragli di speranza: “mi merito di più che portare per tutta la vita il lutto di me stesso” (p. 65).
Nasce in lui l’idea della sola possibilità di vita: la morte. “Guardava fuori dalla finestra, proiettato in un mondo di rabbia silenziosa dove lui era l’unico cittadino con diritto di residenza” (p.71). Importante il dialogo di Nicola e Bonaria: “non è prendendoti gioco di me che cambierai le cose della vita […]. Posso cambiare quelle della morte, però. O potete farlo voi…” (pp. 65-66).

Chi soffre non può percepire il miracolo della vita che svanisce perché non ha più senso. Lo conferma Nicola quando dice: “tutta la vita a letto lo chiamate miracolo? […] Adesso sono uno storpiato, uno che non vale l’aria che respira. Cento volte meglio sarebbe se fossi morto” (p.67). Forti, in queste parole, sono le ragioni del corpo che nella morte vede l’unica soluzione. Anche Don Frantziscu Pisu, il parroco di Soreni, andrà a visitare Nicola, e subirà il suo violento attacco verbale.
Interessante il dialogo che segue:
“-Se dovete benedirmi beneditemi, e poi andate via. Avere tempo da buttare non significa che lo butterò con voi. […]
– Non sono venuto a benedirti. Le benedizioni non si impongono a nessuno.
– Allora cosa? A maledirmi non c’è bisogno, lo vedete da voi.
– Non bestemmiare, la tua vita non è una maledizione, neanche se ti manca in agaba. È di questo che vorrei parlarti… […]
– Vorreste parlarmi della mia vita? E cosa ne sapete voi, prete? Forse che vivete monco? […] Una cosa è dire «sono storpio per vocazione», ma intanto quello che non si usa è sempre lì, sia mai che uno cambia idea… […] Invece io non posso cambiare idea” (p.74).

Nicola rifiuta il conforto religioso e la salvezza nella fede; il suo dolore è inaccettabile e privo di senso: si predispone alla morte. Insistente la sua richiesta a Bonaria che deve compiere questo atto: “Se mi aiuterete, passerà per morte naturale. Altrimenti il modo lo trovo io” (p.82).

La Sardegna raccontata

Michela Murgia in Accabadora ci narra una storia affascinante, mostrandoci uno squarcio della Sardegna rurale, primordiale e indomata che sollecita la curiosità del lettore. Un’isola avvolta da un velo oscuro e antico, spazio elettivo di rituali ancestrali e affascinanti, che difende le usanze e superstizioni sopravviventi al dilagante progresso. Una terra radicata nella sua storia, ammantata di sacro e profano, di lecito e illecito, di amore e dolore che trasporta in una dimensione quasi separata allo scorrere inesorabile del tempo. Da sfondo, intrecciato nella trama e incastrato nella terra, troviamo il tema del fillus de anima, tanto caro alla scrittrice.
Le parole che affiorano dalle pagine di Accabadora sono pinzate forti sulla pelle, e l’uso di una lingua, punteggiata da espressioni dialettali, traduce magnificamente la crudeltà della vita. Frutto di una seducente ricerca, Michela Murgia ha compiuto un viaggio nei ricordi d’infanzia, regalandoci una storia che, con delicatezza, ha messo a nudo un tema di grande attualità legato all’eutanasia, e descrivendo con incomparabile tenerezza, il rito della morte e del lutto.

“-Quando finisce un lutto, Tzia? […]
-Quando finisce il dolore finisce il lutto, spiega Bonaria a Maria quando le chiede, nella sua innocenza, se il lutto serve a far vedere che c’è il dolore […].
-No, Maria, il lutto non serve a quello. Il dolore è nudo e il nero serve a coprirlo, non a farlo vedere” (p.98).


Accabadora-Michela-Murgia-copertina-webokScheda libro

Titolo: Accabadora

Autore: Michela Murgia

Casa editrice: Einaudi

Anno: 2009

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